ERIC ATHEY (Time/Distance)
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  Recensione del  28/09/2006
    

Le copertine a volte dicono tutto o quasi e nel caso del secondo lavoro di Eric Athey - songwriter di Lancaster, Pennsylvania che avevamo già incontrato un paio di anni fa con l'esordio Open House - la cover in bianco e nero è lo specchio dell'anima musicale di Time/Distance. Un disco grigio, colmo di malinconia sia negli episodi più elettrici, modellati come sempre sulle cooordinate di un robusto roots-rock figlio dei Son Volt, sia a maggior ragione nelle ballate riboccanti di nostalgia e scorci di un'America provinciale.
Confermata la formula del debutto, Time/Distance è solamente più convinto e convincente, non ancora affrancato dai modelli istituzionali a cui il songwriting di Athey fa esplicito riferimento, ma certamente più coraggioso nella costruzione delle melodie e sicuro in fase di produzione. La band è rimessa sempre alle cure dei fratelli Mark e Dave Boquist, un passato guarda caso con Son Volt e Mark Lanegan, a cui si aggiungono oggi il basso di Mike Santoro (ex Whiskeytown), l'organo di Mike Stark e la voce femminile di Kim Sherwood-Caso, questi ultimi due membri della Johnny Dowd band. Adocchiati i curriculum, giriamo dunque dalle parti del più classico suono alternative country ed è così infatti che si presenta Time/ Distance, introducendoci al roots rock furioso e riverberato di Angel on Your Shoulder, seguito a ruota da una ballata elettrica, Light Inside Your Room, che riporta al periodo d'oro del genere, scivolando verso le prelibatezze armoniche dei Jayhwaks. Niente di nuovo sotto il sole, ma la scrittura è ferma, offre spunti interessanti e riserva sorprese quando le luci si abbassano, passando la mano ad un accorato suono elettro-acustico.
Happiness è il primo brano a ricevere tali trattamenti: liquida ballata con l'appoggio della seconda voce di Kim Sherwood-Caso, è il viatico alla parte più sospesa ed eterea del disco. Gone Again e She Waits for Me ad esempio, impalpabili nelle loro melodie un po' straniate, oppure la cover di The Way Love Used To Be di Ray Davies, una concessione per così dire pop che si ripete in Everytome I Try, e ancora le acustiche Salem NJ e Happiness II, tra Jay Farrar e Neil Young. Questi ultimi appaiono come un'ossessione artistica costante, anche sul fronte più strettamente rock: i sussulti di The Few Good Things e soprattutto quelli di Route Driver, che pare davvero sbucare da un vecchio vinile del cavallo pazzo canadese, per abbassare il sipario sull'eccitazione rock'n'roll della stessa Time/ Distance, chitarre in alto ed un sax a soffiare un vento sudista.
Troppo vistose forse le deferenze per far passare Eric Athey come una nuova grande promessa, eppure la sua musica resta solida e con più di una ragione per farsi catturare dal consueto suono no depression.