JOHNNY CASH (Man in Black: Live in Denmark 1971)
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  Recensione del  27/09/2006
    

Il lettore occasionale potrebbe nutrire il sospetto che, negli ultimi tempi, il giudizio critico sull'opera di Johnny Cash sia stato viziato in parte dalla retorica postmortem che si concede in genere ai trapassati, in parte da un'effettiva incapacità di separare il grano dalla crusca: non si spiega altrimenti la cecità adulante di una stampa che, dopo averlo ignorato per un trentennio buono, pare oggi aver riscoperto un artista incapace di licenziare lavori appena inferiori al capolavoro.
Chi invece segue e conosce la musica country da tempi non sospetti saprà che la carriera di Cash non è sempre stata uniforme, e che se alcune uscite recenti - l'acustico e ascetico Personal File -vanno collocate tra le sue cose migliori di sempre, lo stesso non si può dire di alcune ristampe inerenti gli anni settanta (invero un po' deficitari sotto il profilo artistico). Dagli anni settanta proviene questo Man In Black: Live In Denmark, testimonianza audiovisiva di un concerto danese in cui il nostro è accompagnato non solo, come d'abitudine, dall'adorata moglie June Carter, ma nientemeno che da Carl Perkins, dagli Statler Brothers e da un membro originario della leggendaria Carter Family, Mother Maybelle, senza ovviamente dimenticare le di lei figlie (e sorelle di June) Anita e Helen.
In base a quanto appena enunciato, su questo dvd bisognerebbe elevare una sentenza altrettanto severa. All'inizio degli anni '70, infatti, sebbene il successo commerciale di Cash fosse ancora inalterato (in ambito pop come C&W, con tanto di seguitissimo varietà televisivo a proprio nome), l'ispirazione dei suoi dischi era in netto calo, prima avvisaglia di una corrente negativa destinata a protrarsi anche lungo tutti gli anni '80.
In assenza di informazioni più precise circa la location del concerto (uno studio televisivo danese?), inoltre, posso soltanto rilevare che raramente mi è capitato di assistere a una cornice più strampalata: non soltanto per l'orrendo design della sala di posa dove la trasmissione è stata registrata (quattro assi di legno sul pavimento e qualche fila di posti a sedere simili alla più scalcinata panchina di un parco pubblico: in pratica la saletta degli spot Amazzone di venticinque anni fa), bensì per l'età media dell'uditorio, in apparenza prelevato di forza da un gerontocomio, per il kitsch insopportabile degli abiti di scena (gli Statler Brothers, in particolare, paiono essersi agghindati a una svendita Postalmarket, mentre le sorelle Carter indossano improponibili camicie da notte in odor di naftalina), per la totale, assoluta staticità delle riprese, che vedremmo forse più fantasiose in una puntata qualsiasi della nostrana Domenica In.
Eppure, nonostante tutto, di un concerto di Johnny Cash non si può parlar male, e questo lo si deve all'inossidabile potenza iconica del personaggio, che quando intona la propria canzonesimbolo, Man in Black, sibilando i versi "vesto di nero per tutti quelli che sono morti/pensando che il Signore fosse dalla loro parte/per tutti quelli che se ne sono andati/pensando che tutti noi fossimo dalla loro parte", immagini potrebbe sollevare il mondo con un mignolo. Questa, a ben vedere, è l'eredità più importante tra quelle tramandate da Johnny Cash, il lascito di un uomo che ha saputo, e voluto, immolare il proprio corpo e i propri gesti al cuore della sua nazione, trasformandosi in un simbolo che non si discute, o si ama o si odia, io, che neanche a dirlo lo amo.
Non posso che gustare per l'ennesima volta il country pimpante di A Boy Named Sue e I Walk The Line, tutte le splendide riletture da Kris Kristofferson (Me & Bobby McGee, Sunday Mornin' Comin' Down, Help Me Make It Through The Night), il ruggito western di Folsom Prison Blues, la sempre sublime If I Were A Carpenter in duetto con June, il fiammante rockabilly del Carl Perkins di Blue Suede Shoes e Matchbox, le favolose armonie vocali con cui gli Statler Brothers officiano la melodia dolcissima di Flowers On The Wall, l'intensità con cui ciò che resta della gloriosa famiglia Carter rilegge il gospel di Rock Of Ages. Quel che posso fare, insomma, è genuflettermi ancora una volta di fronte alla statura di Johnny Cash, ancora una volta capace di trascendere gusti e opinioni con una presenza scenica che, contemporaneamente, è bigger than life e bigger than music.