KENNY ROBY (The Mercy Filter)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  26/03/2006
    

Quando meno te lo aspetti, ecco rispuntare dal dimenticatoio uno dei talenti della prima covata alternaive country, Kenny Roby. Ne avevo sinceramente perso le tracce, nonostante avesse pubblicato già due lavori solisti, di cui l'esordio, Mercury Blues, uscito persino su Glitterhouse in Europa. Non so quanti si ricordino ancora dei 6 String Drag, quartetto roots della Carolina che aveva goduto di una effimera stagione di gloria, prodotti da Steve Earle e condotti sotto la sua ala protettrice nella scuderia della E-Squared records. Sono passati ormai dieci anni da quel disco, High Hat, e Roby sembra aver seguito il destino di molti giovani colleghi.
Tuttavia, se anche personaggi come il citato Earle, Ryan Adams o Neal Casal (con il quale Roby incise un cd acustico dal vivo) hanno pubblicamente lodato le qualità del suo songwriting, devono esserci motivi validi, e siamo qui proprio per scoprirlo. The Mercy Filter in effetti mostra un autore in netta ripresa, forse alle prese con il suo lavoro più convincente e coraggioso. Propenderei soprattutto per questa seconda ipotesi, perché invece di ripercorrere i più scontati sentieri del country rock, il disco azzarda un suono più "moderno" e urbano, rimanendo sempre e comunque negli ambiti di un certo pop rock d'autore americano. The Mercy Filter è stato prodotto da Justin Faircloth nel North Carolina, luogo in cui da anni Roby risiede, e quello che risalta è proprio il suono brillante - un disco degno di una "major" - la pulizia delle chitarre (Scott McCall dai Two Dollar Pistols) e il loro intreccio con piani, organi e accordion (sempre nelle mani di Faircloth). L'iniziale New Day è un collegamento con il passato dei 6 String Drag, roots pop di ottima presa che costituirà lo schema principale del disco.
Roby è cresciuto come interprete, anche se la sua voce mantiene quel timbro un po' monotono che gli appartiene (ne soffrono certe ballate tra cui Not for You e Evidently You), ma se la cava egregiamente nei testi, spesso amari e riflessivi. Mi pare lo dimostrino canzoni e titoli quali Everything Goes Black e Bein' Alone, che dal punto di vista musicale ricordano Pete Droge e tutti quei rockers devoti al suono di Tom Petty, chitarre e melodia come punto di partenza. Tra gli episodi degni di nota su questo versante vanno citati Bettin' on the Blues, la scanzonata The Liver e On the Wind, quest'ultima con cadenze british alla Elvis Costello prima maniera, un altro punto di riferimento imprescindibile.
Al contrario il finale è affidato prima ad un ruvido rock'n'roll come The Committee, quindi, per controbilanciare, ad una coppia di ballate, Lead Dancer's Dance (una border ballad con accordion) e Still Breathing at the King's Motel, malinconiche e suggestive.
Speriamo di non perderlo di vista un'altra volta.