Le ottime impressioni destate dai recenti
Countrysides e
Greatest Hlts Redux confermano il buon periodo vissuto dai
Cracker dopo lo scioglimento del sodalizio con la Virgin. Lasciate alle spalle le incertezze venute a galla con
Forever, il gruppo dell'esuberante e imprevedibile
David Lowery dimostra di essersi definitivamente ritagliato un posto a sé nel panorama del rock americano sfuggendo a qualsiasi etichettatura e realizzando una musica che emana vitalità e personalità da qualunque parte la si guardi.
Una musica che ha una sua coerenza anche se costituita da frammenti sonori diversi, apparentemente in contrasto ma in realtà complementari come il teso poprock e le ballate, la flebile e malsana psichedelia e il ruspante roots rock, i nervosi fremiti punk e le colte citazioni letterarie di cui il disco è ricco. A leggere le informazioni su Greenland sembra essere l'alcol il combustibile nell'ispirazione di Lowery e compagni perché a detta loro "
Il disco inizia con una bottiglia di scotch e finisce con un amaro fondo di vino". Si capiscono così gli improvvisi cambi di umore dell'album, le accelerazioni frenetiche, i rallentamenti estatici.
Greenland racconta una storia e lo fa in modo non lineare, addirittura spiazzante, lo si avverte subito, dopo l'iniziale e bellissima
Something You Ain't Got, una cover degli American Iron, quando ci si aspetterebbe un disco sulla falsariga di Countrysides ovvero roots-rock e echi western da Lost Weekend e invece ci si trova catapultati in un bar di Mendocino assieme a Thomas Pynchon (
Where Have Those Days Gone) dopo essere passati dall'Andalusia (
The Riverside), dalla Scozia {
Maggie), da Bodega Bay (la "ridente" località nordcaliforniana dove fu ambientato Gli Uccelli di Hitchcock) e dalle visioni spagnole e africane evocate assieme a Hemingway in
Sidi Ifni. Un altalena di situazioni e di cambi di scena che gli irriverenti
Cracker si divertono a costruire per ribadire la loro indipendenza stilistica e il loro avventurismo, mostrando una creatività ed un urgenza espressiva che hanno del sorprendente.
Le canzoni nel disco finiscono e sono dove devono essere,
Greenland è una lode all'eclettismo e alla imprevedibilità ma è coerente con la natura rock del gruppo, niente presunti avanguardismi o demenzialità toutcourt quindi ma sano e pericoloso rock garagista, stilettate chitarristiche di prima qualità, ballate dai colori invernali, tesi poprock da far invidia al primissimo Costello o ai Rockpile, diafane psichedelie in odore di Velvet, scampoli di Pixies. Il tutto infarcito di alcol e di citazioni letterarie, quasi fosse un diario di viaggio in terre lontane (Groenlandia o Africa, poco importa), una sorta di Bruce Chatwin in caustica salsa rock da gustarsi nei brumosi giorni di autunno quando sono i ricordi più che gli idrocarburi a riscaldare corpo e anima. Comunque sia,
Greenland non è la terra di verde e abbondanza che suggerisce il titolo ma un luogo dove si consuma un palpabile senso di precarietà, canzoni che hanno qualcosa di oscuro e malato anche se non sono lo specchio di una decadenza autodistruttiva ma piuttosto di una rabbia che urla un desiderio di vita non banale.
È il disco più difficile, a detta dello stesso autore, scritto da Lowery, che in studio è stato aiutato dal chitarrista, cantante e cofondatore dei Cracker Johnny Hickman, dal batterista Frank Funaro e dal tastierista Kenny Margolis, a cui si sono aggiunti David Immergluck dei Counting Crows, Mark Linkous degli Sparklehorse e John Morand. Un disco difficile proprio perché non insegue una direzione unica ma fa del rock il linguaggio più accessibile per esprimere scenari e stati d'animo diversi, come se prendesse l'ascoltatore e lo portasse in una corsa attraverso i vasti spazi della greenland, tra visioni estatiche, suoni che paiono arrivare da un passato ancestrale, ballate nebbiose e una tensione elettrica che è dimostrazione di vita ed energia.
Dalle montagne di
I'm So Glad She Ain't Never Coming Back al ridente bar della costa californiana di
Need Have Those Days Gone, dalla Cordoba di
Riverside ai mari africani di
Sidi Ifni, dalla Stinson Beach di
I Need Better Friends alla potenza mitologica di
Minotaur, Greenland è una bussola impazzita, ribolle di turbolenze e coglie i Cracker in pieno cambiamento, in mezzo ai venti di burrasca ma saldi al timone. David Lowery e Johnny Hickman sono ancora i padroni della nave ma nella ciurma sempre più peso ha l'ex Mink Deville Kenny Margolis che con le sue tastiere (in
Darling Were Out Of Time addirittura un Farfisa) svolge un ruolo di primaria importanza nell'economia generale del suono. Dalle esplosioni noise di
The Riverside e il giro di echi e chitarre assassine che si ripetono in forma circolare in
Gimme One More Chance alla stratosferica ballad loureediana con piano e lap steel di
Fluffy Lucy fino alle parole conclusive di
Darling We're Out Of Time, "
anche gli animali sanno che questa è la fine, baby noi siamo fuori dal tempo",
Greenland pulsa di quell'energia di cui sono fatti i grandi dischi di rock.