BELLWETHER (The Stinging Nettles)
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  Recensione del  09/07/2006


    

Proprio durante un'intervista rilasciata al Buscadero in occasione del precedente Seven & Six, il leader dei Bellwether Eric Luoma faceva riferimento ad un disco registrato più o meno in contemporanea con quest'ultimo, che giudicava tuttavia come speculare e opposto nelle atmosfere, l'altra faccia della medaglia rispetto a quelle ballate morbide e crepuscolari. The Stinging Nettles è finalmente messo a disposizione dalla band, grazie all'interessamento sul mercato europeo da parte della piccola label olandese Rosa records.
Continuano dunque un personale percorso artistico che li ha visti eleggere fra le realtà più interessanti e ignorate dell'intero movimento roots provinciale. Forse perché questa piccola realtà del Minnesota non ha mai sopportato di essere imbrigliata nelle trame dell'alternative country e la costante evoluzione del loro sound, da un roots rock brillante sulla scia dei primi Wilco e Jayhawks ad un più etereo folk d'atmosfera con il precedente Seven & Six, sembra proprio avvalorare la tesi di una band in divenire.
The Stinging Nettles però confonderà ancora di più le acque, perché si tratta di un lavoro che riporta in auge un suono più corrusco e rurale, con richiami evidenti proprio alla prima stagione dell'alternative country. Essendo atteso un disco nuovo di zecca per i prossimi mesi, almeno così si vocifera, The Stinging nettles è senz'altro un'opera interlocutoria se giudicata nell'intero svolgersi della carriera dei Bellwether, restando peraltro un colpo di coda godibilissimo in se stesso, trentacinque minuti scarsi di purezza Americana.
Dopo che il chitarrista Jimmy Petterson si era preso una licenza con la creazione dell'interessante progetto dei Missing Numbers, sul futuro dei Bellwether non era dato scomettere. The Stinging Nettles non aiuta a diradare le nubi: la spiegazione è insita nelle ambientazioni stesse di queste canzoni, più elettriche ed esuberanti, sebbene filtrate dalla cura degli arrangiamenti che contraddistingue i Bellwether fin dal loro debutto.
Undici gemme che ballonzolano tra echi byrdsiani (There Were Days) e country rock di stretta osservanza settantesca (Talkin' Funplex Blues, Jamestown), chitarre cristalline, una scalpitante pedal steel, quella di Jim Johnson, e svisate pop (Maybe Unsure) che si intersecano con una cadenza più rurale e fin quasi bluegrass (Sweethearts). Il tutto reso seducente, a tratti persino spiazzante, da un'incisione rugosa, grezza, dove la musica sembra uscire filtrata da una vecchia radio AM, sgranando la voce di Luoma e le sue imbattibili melodie.
Armonie e rumori di fondo si confondono, mantenendo comunque in primo piano la malinconica, dolciastra inflessione delle composizioni di Eric Luoma, che sembra andare a nozze nella struggente nostalgia di Nothing's Wrong e Corner Out Walking. Canzoni come sempre disarmanti, che si chiudono a riccio nella loro semplicità: non reinventano nulla, ma sanno parlare al cuore di chi apprezza l'american music.