GARY BENNETT (Human Condition)
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  Recensione del  09/07/2006
    

Mentre gli ex compagni dei BR5-49, lasciati per divergenze artistiche nel 2002 all'apice del successo, sembrano un po' al palo e parecchio indecisi sulla direzione da prendere, Gary Bennett ingrana la marcia e da nuova linfa alla sua carriera solista con l'esordio Human Condition. Registrato lo scorso anno a Nashville sotto la supervisione del noto produttore roots RS Fields, il disco sorpassa in freschezza e songwriting i citati BR5-49, dando ragione alla scelta coraggiosa di Bennet di ripartire da zero.
La riuscita di questo progetto va ad ogni modo condivisa con una band stellare che accompagna in studio il nostro protagonista: non è da tutti i giorni in effetti godere dei servigi di Marty Stuart (mandolino e chitarre), del bravissimo Kenny Vaughan (chitarre elettriche), senza scordare la pedal steel leggendaria di Lloyd Green e solidi turnisti come Richard McLaurin (banjo, piano) e Mark Winchester (basso). Risultato assicurato quindi, seppure non vada sottovalutato l'apporto di Bennett, non un grande scrittore questo va ammesso, ma dotato di un gusto retrò che già usciva allo scoperto con la vecchia band ed oggi pare si sia aggiornato inglobando al suo interno la giusta concentrazione di profumi country, dolcezze pop e scariche rock'n'roll.
La partenza è tutta nel segno della tradizione, quasi a tracciare un ponte con il passato artistico di Bennett, mettendo a proprio agio l'affezionato ascoltatore: Human Condition saltella su un ritmo honky tonk robusto, l'armonica di Pat Bergeson colora di country&western la tenera ballata Headin' Home, mentre la zuccherosa Things That Men a Lot to Me potrebbe averla scritta Jimmy Buffett, ma non è un complimento…
L'agilità di stili resta tuttavia un punto fermo di Bennett, la cui chiara vocalità distende un sentimento country rock di vecchia data, perfetto per adattarsi come un guanto al suono demodè di Just Wanna Be With You, con un solo all'elettrica dell'ospite Marty Stuart, al western swing scattante di That's What I'm Here For, fino all'irresistibile Ain't Gettin' No Younger, country ballad degna di un Buck Owens. Si passa quindi al feeling sudista, un vero e proprio swamp rock elettrico, di Better Than This, scritta a quattro mani con Todd Snider, alle finezze pop di My Illusion, forse la più maliziosa e leccata della raccolta, chiudendo i giochi con due autentici colpi di classe: What Turned Out to Be è un concentrato di romaticherie country come solo Gram Parsons poteva permettersi, della cui lezione musicale Bennett è sempre stato un cultore (sul primo disco dei BR5-49 intrepretò Hickory Wind), mentre la polemica American Dreamin' scompagina le carte con un piglio rock'n'roll inedito ed un gran lavoro alle chitarre di Vaughan. Pochi passi falsi dunque e molti diversivi sulla scia di una roots music coinvolgente e consapevole del valore delle radici.