ED PETTERSEN (Two T's All E's)
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  Recensione del  09/03/2005
    

E' dal 1995 che Ed Pettersen, in occasione della pubblica­zione di un suo album, continua ad essere definito una delle più interessanti promesse dell'Alt-country. Per carità, non che siano state tutte promesse da marinaio, ma tutti i suoi lavori, alla fine, ci hanno lasciato un po' di amaro in bocca, per non essere riusciti a concretiz­zare quanto di buono si era ipotiz­zato. Nel suo DNA ci sono radici sia norvegesi, come tradisce il cognome, ma soprattutto italiane, che grazie al nonno, concertista di clarinetto, gli hanno garantito una formazione classica estremamen­te rigorosa, che anche il padre di Ed, appassionato di musica, ha continuato ad alimentare così da permettere alla sua giovanile avi­dità musicale, di assimilare le matrici di tutti i generi ai quali si è accostato, dal folk più genuino al rock dei sixties, al country ed all'alternative rock recente.
La sua carriera musicale è prose­guita, dopo l'EP Desperate Times del '95 e, soprattutto, dopo l'acclamato Somewhere South Of Here del 1997, a periodi alterni, infatti per 5 anni di lui si sono perse le tracce, almeno come songwriter. Colpito da una rara malattia gene­tica, dopo un fortunato tour euro­peo, Pettersen si è infatti ritirato dall'attività live, incompatibile con la sua salute, dedicandosi a quel­la di produttore di artisti come Liz Graham e Danny Blake, per ritor­nare in studio soltanto nel 2002, alla testa degli Strangelys, una band di power pop, con l'album Spare Bedroom. Inutile dire che l'accoglienza del mercato è stata sistematicamente tiepida e, per quanto sorretta ed accompagnata da una critica lusinghiera, Pettersen non è mai riuscito ad uscire dai confini della Pennsilvanya, dove nel frattempo si era stabilito.
A distanza di poco più di un anno da Spare Bedroom, esce questo Two T's All E's, quasi un nuovo esordio per Pettersen, che torna a vestire i panni , certamente a lui più con­soni, di un poliedrico songwriter che non si preoccupa di chiarire univocamente la direzione del suo stile, ma che decide di dare ad oqni canzone la forma che ritiene più opportuna. Ed allora eccolo inanellare r'n'r scolasticamente rigorosi come Dwiou o come la fantastica Current Flame, live acustica di grandissima intensità, oppure ancora rifarsi a modelli più vicini, come nel brano di apertura Wait For Me sul quale aleggia prepotentemente la figura di Lou Reed. Echi di uno spudorato, ma elegante, power pop ricorrono in If I Tell You e nella bellissima What A Little Love Can Do, che sembra scritta a quattro mani con Bob Lind, grande autore anni ses­santa, richiamando la recente esperienza con gli Strangelys: il folk non può mancare e This Hard Land sembra ispirarsi diretta­mente a Woody Guthrie, così come in La Tragedia Di Heraclio Bernal, per voce, chitarra e percussione, Pettersen si esprime ancora nel modo più classico e compiuto, con una proprietà del senso tragico degna dei migliori autori, mentre in I'm Not Myself, la struttura base si arricchisce di un sottofondo elettrico che sembra fatto vent'anni fa, per la sua trasparente semplicità ed i suoni privi di qualsiasi effetto o pulitura digitale.
Stesso dicasi per Too Long Time, ballatona country elet­trica in apparente totale contrasto con la pura e rurale Pray Morning Comes. Un po' di blues in Time For An Outlaw Again e I Do, che sembra ricordare la mitica Bring It On Home To Me, ed il caleidosco­pico repertorio di Pettersen potrebbe essere completo e non per rappresentare un pasticcio, ma per sottolineare le indubbie capacità di un autore che, invece, sembra non essere convinto dei propri mezzi e preferisce viverne una superficialità che non accontenta nessuno, ma nemmeno nessuno scontenta. Su tutto, l'aura continua della semplicità delle sue composizioni, una semplicità che potrebbe apparire anche un po' datata, ma che in realtà risen­te del suo attaccamento a schemi tradizionali che non hanno voluto recepire la contaminazione delle recenti generazioni di rocker, folk-singer, bluesmen, countrymen e così via, ma che ha preferito mantenere quella cristallina semplicità che è stata all'origine stessa di quelle contaminazioni.
Come ha detto Patrick Carr, editore di Country Music Magazine, un lavoro 'wholeheartedly recommended'.