In cerca di una soluzione discografica che possa mantenere un livello dignitoso,
A.J. Croce si conferma il più personale dei figli d'arte, anche se il suo percorso dopo i numeri di
That's Me In The Bar, Fit To Serve e
Transit è stato tutt'altro che lineare.
Ottimo pianista, validissimo cantante e discreto songwriter A.J. Croce ha provato (senza alcun riscontro evidente) una svolta pop con il modesto
Adrian James Croce per poi ritrovarsi in versione più o meno indipendente a cercare di tenere insieme le fila delle sue passioni e della sua musica.
Cantos, che si presenta a ridosso dell'antologia che rispolverava proprio i suoi primi tre (e migliori) dischi ha per questo il senso dell'inizio di un nuovo corso, in gran parte ancora tutto da verificare.
L'approccio è sensibilmente cambiato rispetto al passato: A.J. Croce sembra voler privilegiare l'aspetto melodico piuttosto che quello ritmico, più Beatles e meno Little Feat per farla breve, con ampio dispendio di soluzioni acustiche. Una bella fetta dei Cantos effettivamente deve parecchio in termini di composizione all'idea di canzone inseguita dai Beatles e
Time Will Tell, Maybe I'm Amazed, All About You, I Should Have Known, All I Have, tutte degnissime di nota, hanno scampoli di questo o di quel ritornello, ma soprattutto tutti gli accenti e l'enfasi puntati sulla melodia.
L'altra caratteristica, in parte inedita, di
Cantos è una bella sezione in cui A.J Croce passa dal pianoforte alla chitarra acustica per una serie di ballate molto intense (
I'll Know It's Right, Once Again, One And Only e Play) che forse sono il lato migliore del disco. I punti deboli sono nella voce, meno incisiva che in passato (dove sfoderava tutt'altra grinta) e in una certa ripetitività del songwriting, segno che certi passaggi non sono stati del tutto in dolori.
Con questo,
Cantos è un disco dignitosissimo, però visto in sequenza insieme alle sue ultime uscite si ha come l'impressione che
A.J. Croce non riesca a ritrovare quel centro di energia, calore ed emozioni che alimentava i suoi Early Times e il paragone, vista anche la recente antologia, è inevitabile. Ottima la scelta dei musicisti con Brian McLeod (un batterista molto efficace), Davey Faragher (basso), Greg Leisz e il fidato Michael Bizar alle chitarre.
Tra gli altri fa un'apparizione anche Ben Harper che impreziosisce
Play con una notevole chitarra slide.