Slaid Cleaves, giusto un paio di anni fa, ci fece sobbalzare sulle poltrone con l'album
Wishbones, il suo terzo lavoro (escludendo gli episodi indipendenti di inizio carriera), e semplicemente uno dei migliori dischi dell'anno. Un lavoro splendido, nella più pura tradizione del cantautorato texano (Cleaves è del Maine, ma è ormai un texano adottivo), con richiami ad autori di culto quali Joe Ely, Ray Wylie Hubbard, Guy Clark e Jimmie Dale Gilmore, che alternava grandi ballate ad episodi più mossi, ma con il filo conduttore della grande musica sempre presente.
Logico quindi attendersi una conferma da parte di Slaid, conferma che arriva puntuale con
Unsung, un disco che prosegue il discorso intrapreso con
Wishbones, ma con una particolarità: i tredici brani presenti nella raccolta sono tutte covers. Non è però un tribute album alle sue influenze texane e non, non vi sono brani di Billy Joe Shaver, Ely, Waylon o Willie, né di Dylan e Morrison, ma bensì canzoni scritte da amici e colleghi di Slaid dalla limitata notorietà, canzoni perlopiù sconosciute al grande pubblico.
Una scelta decisamente spiazzante quindi, ma che denota forse ancor di più il rigore morale di Cleaves, come se un giorno avesse detto: "Ok, ho avuto bellissime critiche per il mio songwriting, e adesso vi voglio far vedere che in America ci sono tanti autori forse ancora più bravi di me". Autori mai sentiti, come Karen Poston o Steve Brooks, altri più noti (si fa per dire) come David Olney, Adam Carroll e Peter Keane: ma, alla base di tutto, vi è la capacità e la bravura di Slaid, che è un vero talento, di fare di questo disco un progetto unitario, come se tutti i brani fossero a sua firma. Come ciliegina sulla torta, la produzione attenta e professionale di David Henry e Rod Picott. Si parte alla grande con
Devil's Lullaby, splendida ballata elettroacustica, figlia del Dylan più folk (o del Todd Snider del primo periodo, quello che coniugava testi intelligenti a grande musica), eseguita con un feeling smisurato.
Una delle migliori ballate dell'anno, senza esagerare. La pianistica
Another Kind Of Blue, lenta e sussurrata, ma non noiosa, ha in sé l'anima del vero cantautore;
Everette è bizzarra: cadenzata, quasi cabarettistica, ricorda certe cose del Tom Waits meno estremo. Oh,
Roberta è un'altra gentile ballata, quasi bucolica nella melodia e nell'arrangiamento,
Racecar Joe ha una maggiore dose di vivacità (ma la base è acustica), mentre la bella e discorsiva
Call It Sleep, dall'incedere quasi parlato, non fa che confermare il talento di Cleaves, ed il gusto che dimostra nello scegliere brani sconosciuti ma di sicuro impatto.
La cadenzata
Millionaire (di 0lney) prelude alla splendida
Fairest Of Them All, di Ana Egge, una slow ballad di pura e cristallina bellezza, arrangiata in modo perfetto. Forse la migliore del disco. Anche
Flowered Dress, abbellita da un suggestivo violino, ha diverse frecce al suo arco;
Working Stiff ha un gustoso arrangiamento a base di fiati,
Getaway Car ricorda lo stile dei primi dischi (quelli belli) di Elton John (è vagamente simile, nell'attacco vocale, a Tiny Dancer). La dolce
Song For June, tutta basata su voce e pochissimi strumenti, chiude in maniera positiva un album più che riuscito. Un disco che forse non avrà l'impatto di
Wishbones, ma che a forza di ascolti gli arriva ad un'attaccatura. Ed ora aspettiamo il prossimo disco di brani originali.