Non è un disco nuovo
Whiskey Or God, dacché il suo contenuto, seppure opportunamente riconfezionato, è lo stesso di
Heeah!, uscito giusto un anno fa e composto per lo più dalle rarità e dagli inediti accumulati in un decennio di onorata carriera, ma per
Dale Watson potrebbe comunque rivelarsi foriero di sviluppi interessanti.
Innanzitutto perché dovrebbe contare su di una diffusione assai più capillare rispetto a quella toccata in sorte al predecessore (anche se in questo senso le potenzialità della Palo Duro mi lasciano alquanto perplesso), e poi perché sarà distribuito in concomitanza col documentario Crazy Again: dietro la macchina da presa c'è il regista Zalman King, quello di Orchidea Selvaggia (!), e la sceneggiatura prevede l'alternarsi di riprese dal vivo di Watson e dei suoi fidati Lonestars al doloroso resoconto dei mesi che hanno seguito la scomparsa della sua compagna Terri Herbert, morta in un incidente stradale cinque anni fa. Il tutto vi sembra un po' sconclusionato? Non avete torto, lo è, ma ogni espediente buono per far guadagnare qualche visibilità all'hardcore-country di Dale Watson va benedetto senza esitazioni.
Che sarebbe accaduto, infatti, al country più elettrico, ruspante e non adulterato, sulla falsariga del primo Merle Haggard, se in questi anni non avessimo potuto fare affidamento sull'energia di Watson? Sarebbe scomparso, oppure l'avrebbero soffocato le pestilenziali esalazioni del canone nashvilliano, che troppe volte si riduce a una patetica parodia del genere dov'è previsto al massimo qualche accenno di pop con violini e pedalsteel.
Dale Watson i violini non sa neanche cosa siano, però sa benissimo come far ruggire le sei corde ed è avvezzo a lasciarsi trascinare dal ritmo indiavolato di una fisarmonica.
Whiskey Or God, in modo non dissimile dai lavori che l'hanno anticipato, sciorina quattordici tracce classiche e brillanti, dove valzer invasati, honky-tonk vorticosi e ben assestati ceffoni roots-rock vengono affrontati col pedale dell'accelerazione a tavoletta.
La scuola di Bakersfield, come dimostrano le varie
Sit And Drink And Cry, I Don't Feel Too Lucky Today, It Hurts So Good o
Darlin' Look At Me Now, trova in Watson uno dei suoi allievi più preparati e volenterosi, mentre lo spettro dei Texas Playboys di Bob Wills aleggia benevolo sullo swing rutilante di
Truckin' Queen (I Got My Night Gown On...) e
I Ain't Been Right,
Since I've Been Left, ma ogni canzone è accomunata da un mordente ritmico talmente sostenuto da non consentire un solo attimo di tregua. Anche nelle più ortodosse ballate rock, per esempio l'ottima title-track, o l'altrettanto graffiante
No Help Wanted, non c'è quasi il tempo di respirare, e parimenti incalzanti sono l'omaggio a Marty Robbins d'una
Tequila & Teardrops infarcita di fiati spagnoleggianti e la sfacciataggine di una
38... 21...34 che non si fa scrupoli nel citare per filo e per segno l'Hank Williams di
Hey Good Lookin'.
Nutro poi una particolare predilezione per
My Heart Is Yours, avvitata su di un giro di pianoforte tanto semplice quanto efficace, e per la gemella
I Wish I Was Crazy Again, cioè gli episodi in cui Watson prova a tuffarsi nel giulebbe della canzone d'amore alla George Jones senza tuttavia rinunciare a un approccio sempre eccessivo e spiritoso. Pressoché giunto al completamento di questa sommaria descrizione, il lettore potrebbe in effetti domandarsi (e per farlo basta aver ascoltato anche uno solo degli undici lavori antecedenti
Whiskey Or God) se per caso il buon
Dale Watson non faccia sempre lo stesso disco. Che diamine! Certo che fa sempre lo stesso disco. Ma basta saperlo e regolarsi: del resto, almeno per quanto mi riguarda, se una birra è buona non vedo perché non stapparne una seconda bottiglia. 0 una terza, o una quarta…