AUSTIN COLLINS (Something Better)
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  Recensione del  26/05/2006
    

Austin Collins
dichiara di aver preso seriamente in considerazione l'arte del songwriting in tarda età, dopo gli anni del college: giudicando dai risultati impressi in questo esordio per la piccola label texana della Fat Caddy, abbiamo di che stupirci. Costruzione melodica, arrangiamenti e liriche danno la dimensione di un personaggio molto più consumato dagli studi di registrazione e dai palchi della sua omonima Austin.
Passato inosservato per molti mesi, pubblicato più di un anno fa, ma mai troppo in ritardo per essere degnamente segnalato, Something Better è un debutto coi fiocchi, un centro assoluto che ci presenta una delle nuove voci più interessanti del panorama country rock. Prendete il Ryan Adams più corrusco e tradizionalista con i Whiskeytown, o quello altrettanto classicista dell'ultimo Cold Roses, fategli fare un viaggio in Texas a stretto contatto con il new breed locale, toglietegli un po' di quella malizia da teppistello del giovane rock americano, ed avrete una concreta proiezione del contenuto di Something Better, un disco a tratti troppo derivativo, tanto da generare il sospetto di uno psedonimo, un divertissment sotto cui potrebbe celarsi il vero mr. Adams.
È questo lo scotto maggiore che deve pagare Austin Collins, cercando a fatica di aprirsi un suo varco: il difetto di personalità non intacca tuttavia una sequenza di ballate che stordiscono per il loro immediato appeal, per la bellezza rotonda del sound, per la facilità con cui intrecciano profumi roots e più smaliziati intenti pop rock. Merito certo da condividere con il produttore Bill Cerveny e il sostegno non indifferente di un bel manipolo di musicisti, tra cui il bravissimo Paul Moak (chitarre, pedal steel, mandolino, banjo) e Ian Fitchuk (hammond, piano), completamento ideale per la voce morbida e limpidissima di Collins.
Del drappello di ballate da infarto che questa squadra riesce a mettere in piedi fanno parte una strepitosa Emily, la stessa Something better, brillante roots rock che sembra sbucare dalle session di Strangers Almanac e le più meditabonde ed acustiche Reckless & Lovely (duetto con la voce femminile di Elizabeth Foster) e Inside (Restless). In gran spolvero altresì nella versione più elettrica e sfacciatemente stradaiola (il rock arioso di 22 Hours e della fragorosa Down), e tanto più nel siparietto rurale di Denver Nights (con il dobro di Kenny Hutson), Austin Collins ha realmente pochi punti deboli sotto i quali soccombere (la sola Eyes Won't See appare un po' confusa sul da farsi) se non l'evidente debito di ispirazione dal suo modello di riferimento. È al primo giro, c'è tempo per affrancarsi.