JESSE DAYTON (South Austin Sessions)
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  Recensione del  26/05/2006
    

Nel porre le fondamenta di un percorso discografico certamente dignitoso sebbene non esaltante, il texano Jesse Dayton sembra ignorare del tutto le regole del "forcing", e questo è un dettaglio che lo rende simpatico: non inonda il mercato di album inutili (come fanno tanti altri colleghi ultraindie ora che fare un disco costa più o meno quanto un pacchetto di sigarette), non smania per apparire a tutti costi, non cerca di occupare ogni spazio disponibile. La tattica perseguita, che è poi quella che un tempo andava per la maggiore e che soltanto un mercato impazzito e frammentario può aver relegato al cantuccio dei procedimenti sorpassati, prevede pochi lavori, peraltro realizzati senza frapporre eccessiva fretta tra un titolo e l'altro, ma tutti a modo loro essenziali, e soprattutto cosa più importante ogni volta caratterizzati da qualche nuova sfumatura da aggiungere alla tavolozza di base.
Non sarà il massimo per chi è sempre in cerca della nuova sensazione o del fenomeno dell'ultim'ora, ma resta una strategia assai utile a far decantare il talento e a irrobustire eventuali maturazioni; una strategia che, nello specifico, ha consentito a Dayton di realizzare una manciata di dischi che ne illustrassero le qualità di roots-rocker capace di sposare il languore di George Jones e la grinta del primo Elvis, il boogie sferragliante del blues texano e il passo svelto dell'honky-tonk. Country Soul Brother, uscito due anni or sono presso l'abituale Stag Records, diceva infatti di un autore ormai provvisto di sufficiente personalità e ragguardevole istinto rootsy, ed è anche per questo che il qui presente South Austin Sessions, in prevalenza composto da riletture di brani altrui effettuate con scrupolo filologico, farà storcere il naso a più di un ascoltatore, che magari lo giudicherà involuto e meno particolare del solito.
A me invece, tra i cinque dischi sinora licenziati da Jesse Dayton, sembra forse migliore, non soltanto perché si tratta di un bagno di umiltà nei confronti del quale non è reato sfoderare un pizzico d'indulgenza (come non guardare con occhi condiscendenti a chi reinterpreta Townes Van Zandt o Zz Top?), bensì per la ventata di freschezza, buon gusto, misura e determinazione che queste dieci canzoni portano in dote.
Jesse Dayton beve solo whisky Jim Beam, e si premura di specificarlo tra le note dell'album, ma anche in fatto di ispiratori e numi tutelari sembra avere le idee altrettanto chiare, sicché South Austin Sessions risulta un piccolo compendio di country, rock e blues rigorosamente "made in Texas: dal proverbiale Townes Van Zandt, con una Loretta trasformata in roccioso country-rock elettrico, agli scanzonati Zz Top di una Mexican Blackbird insaporita dai fiati, dal Jim Lauderdale di una Why Do I Love You affrontata col piglio smanceroso e irresistibile dell'interprete doowop al punk-rock dei Supersuckers di Eddie Spaghetti, la cui Roadworn & Weary acquista maggiore respiro grazie agli ariosi ricami della pedalsteel. Meritano poi applausi a scena aperta la versione tra blues e soul di Cornbread, Peas And Black Molassas (era di Sonny Terry & Brownie McGhee), con tanto di break strumentale alla Lightnin' Hopkins, e la sbuffante Waymore's Blues (Waylon Jennings).
Mentre i brani firmati dal bassista Vic Gerard e dall'altro collaboratore Hernan Brock Jr. (che invece si occupa delle chitarre acustiche) sembrano piuttosto esercizi di stile tanto corretti quanto inessenziali. In ogni caso poco male, che qui si aspira semplicemente a un piazzamento decoroso nel girone cadetto.