Se è vero che certi nomi e certe paternità non possono risultare che ingombranti, è parimenti fondato supporre che quando c'è di mezzo un talento vero i confronti non arrechino svantaggio alcuno.
Django Walker, per esempio, deve certamente qualcosa alla scrittura indolente, pigra e profondamente texana di papa Jerry Jeff, ma i suoi dischi, l'esordio
Down The Road (2002) come il qui presente
Six Trips Around The World, non possono davvero essere accusati di speculare sulla fama o sulle caratteristiche più riconoscibili dell'illustre genitore. Quel che accomuna entrambi, al di là dei legami di sangue, è soprattutto il dato - diciamo - così strettamente "geografico" delle rispettive musiche, poiché è impossibile immaginarsi l'uno o l'altro senza tenere in considerazione il fatto che le loro canzoni arrivano dal Texas, uno stato che, come avrà senz'altro già appreso chiunque abbia ascoltato con un pizzico di attenzione i lavori di Guy Clark, di Joe Ely, di Townes Van Zandt etc., non viene considerato dai propri abitanti alla stregua di un qualsiasi perimetro territoriale, bensì un vero, inconfondibile "state of mind".
Rispetto al predecessore,
Six Trips Around The World suona assai più elettrico e vibrante, talvolta dichiaratamente rockinrollistico, eppure i cromosomi restano quelli di un lavoro al 100% Texas-oriented: più o meno cresciuto insieme a loro, più o meno condividendone gusti e inclinazioni,
Django Walker si inserisce di prepotenza tra le fila di quella newbreed di artisti texani che conta tra i propri membri Cory Morrow, Jack Ingram o Pat Green. A questo punto, inquadrato il raggio d'azione entro cui muovono le undici canzoni (più una ghost-track) di
Six Trips Around The World, resta da chiedersi se la sferzata d'energia impressa da Walker alla propria scrittura abbia sortito effetti positivi, ed è qui, nel tentativo di fornire una risposta definitiva, che incontro qualche difficoltà.
Perché vedete, ascoltato magari in macchina, magari a volume sufficientemente alto, questo disco, tra chitarre che sgommano e il pompare insistente del B3, tra introduzioni roboanti (ascoltate l'apertura di
All I Need, One Lane Road o
Things I Can't Change) e scariche d'elettricità a serpeggiare un po' dappertutto, rischia addirittura di fare un figurone. Dico "rischia" perché a forza di frequentarlo l'impatto subisce un ridimensionamento notevole, i pezzi sembrano di volta in volta rattrappirsi e quella che di primo acchito somigliava a una granitica macchina da rock'n'roll finisce col rivelarsi nient'altro che una combriccola di ragazzini, entusiasti finché si vuole ma ancora piuttosto acerbi.
Insomma,
Six Trips Around The World è il classico disco di transizione, dove per transito si intende la sosta involontaria in una zona d'ombra che vede Django Walker oscillare con qualche incertezza tra l'armamentario da songwriter e l'irruenza del rocker. I momenti di luminosità, tuttavia, non mancano affatto, e a rappresentarli scelgo volentieri quel piccolo capolavoro che risponde al nome di
Hope Street, stupenda parentesi introspettiva che in sei minuti dissolve qualsiasi esitazione circa le reali potenzialità dell'autore: un intero disco su questi livelli, e nessuno si vergognerà di gridare al miracolo.