Strano, ma non troppo, il percorso artistico di questo talentuoso cantautore proveniente da Moscow, Idaho, uno stato immerso nella più classica provincia americana. Ventinove anni, una laurea conseguita senza troppa convinzione, la musica che scorre nelle vene, impetuosa e trascinante: il turning point giovanile è rappresentato dal Nashville Skyline dylaniano, la spinta inesorabile verso una scelta coraggiosa si chiama
Girl From The North Country, il brano di quel disco magistrale eseguito insieme a Johnny Cash. Dopo aver portato a termine gli studi, Ritter cerca fortuna come musicista e si trasferisce a Boston in cerca di una dimensione più precisa nella quale forgiare le sue eccellenti doti cantautorali.
Dopo un debutto discografico autoprodotto, incide due ottimi album, dei quali ci siamo occupati in termini più che positivi sulle pagine della nostra rivista,
Golden Age Of Radio (2002) e
Hello Starling (2003). Quest'ultimo riscuote un grande successo in Irlanda, dove l'artista si è momentaneamente trasferito per aprire alcuni concerti dei Frames, band locale di buona fortuna. Un lungo tour accompagna il disco, che resta per lo più semisconosciuto entro i confini degli States. Fin qui la storia di uno dei molti songwriter che popolano il panorama musicale a stelle e strisce: ottime doti compositive, liriche spesso nostalgiche e introspettive, un suono prevalentemente acustico, una buona voce a supporto delle melodie, che lasciano però intravedere una capacità espressiva notevole e abbastanza rara, che richiama maestri 'maledetti' del calibro di Tim Buckley o Nick Drake. Poi il passaggio dalla Signature alla V2, etichetta che rilancia l'album del 2003 con un EP contenente quattro tracce live. Da questo momento, Ritter si prende tutto il tempo necessario per realizzare il nuovo album,
The Animal Years, che rappresenta un incredibile passo avanti sotto molteplici aspetti.
Per la produzione si affida a Brian Deck, già collaboratore di Iron & Wine e Modest Mouse, un personaggio quasi agli antipodi rispetto alla sua dimensione musicale. Una scelta coraggiosa, se vogliamo una rottura rispetto ad un passato prossimo che lo ha visto cimentarsi con un'impostazione quasi esclusivamente tradizionale del suo repertorio. Registrato tra i Bear Creek Studios di Seattle e gli Engine Studios di Chicago, l'album è infatti ricco di sperimentazioni tecniche e suggestioni sonore che supportano un'ispirazione ai massimi livelli, la cui carica espressiva non viene in alcun modo compromessa dai particolari arrangiamenti, che anzi donano maestosità e grazia ad alcune composizioni assolutamente degne di un talento di categoria superiore.
Se il suono è curato nei minimi dettagli (alcuni tratti ricordano i Wilco ultimo periodo), le canzoni sono dei piccoli grandi affreschi dell'America di oggi, intrisi di una straordinaria intensità poetica. La qualità media dei brani è eccellente, e due-tre canzoni possono essere considerate dei veri e propri capolavori. Le influenze che hanno caratterizzato la carriera dell'artista sono presenti in vario modo tra le pieghe delle melodie intessute di evocazioni storiche e letterarie, basti pensare a
Idaho, un accorato omaggio alla sua terra di origine che sembra uscito dalla penna del miglior Springsteen acustico (quello di Nebraska e Tom Joad), con il suo incedere low-fi in cui si nota soltanto un lieve accenno di chitarra acustica accompagnato dai rumori della stanza in sottofondo. Se il brano di apertura,
Girl In The War, riflette tutte le preoccupazioni e le ingiustizie della guerra in Iraq che sembra non avere fine,
Wolves ricorda vagamente un altro cantautore emergente, Jeff Black, con il piano in evidenza a caratterizzare una sapida melodia, così come uno dei capolavori del disco,
Monster Ballads, in cui un'apertura da brividi ricamata dall'organo Hammond spiana la strada ad una composizione che lascia immediatamente senza fiato. Grande canzone, impreziosita dai tocchi eleganti del piano, la cui ispirazione deriva direttamente da uno dei grandi maestri che hanno caratterizzato la storia della letteratura americana, Mark Twain.
È interessante notare come tutto ruoti attorno ad una visione estremamente lucida della società di oggi e delle pulsioni che caratterizzano un'intimità spesso a disagio nei confronti di una realtà sempre più difficile da decifrare. I piccoli quadretti poetici sono parte di un disegno generale, in cui
Josh Ritter si esprime in modo convincente e senza tentennamenti. Se
Lillian, Egypt può essere considerata figlia del Dylan primi anni Settanta, Townes Van Zandt lascia la sua impronta in
Best For The Best, malinconica ballata dai toni cupi e dall'incedere classico. Ma la farina del suo sacco è di qualità eccelsa e ci regala momenti di indubbio fascino, come ad esempio
In The Dark, seguita da
One More Mouth, in cui l'iniziale fraseggio tra voce e chitarra elettrica è da brividi, per passare ad un altro momento topico,
Good Man, un brano dotato di una melodia superba che si scioglie come neve al sole.
Thin Blue Flame è forse la prova più audace della raccolta, una cavalcata di nove minuti che, dopo un inizio abbastanza classico, si fa più nervosa nel suo incedere, una sorta di poesia confessionale in musica o, se vogliamo,
stream of consciousness in forma canzone, caratterizzata da contrappunti ritmici e strumentali di notevole eleganza. Chiude l'album
Here At The Right Time, incantevole ballata che dischiude una vena melodica semplice e straordinaria, degno epilogo di un disco bellissimo e carico di notevole suggestione.