Al di là della generosità dei
Bottle Rockets, questo disco dal vivo è il perfetto manuale per la sopravvivenza del rock'n'roll. Due chitarre, basso e batteria, l'essenza. Magari
Mark Ortmann, da sempre nei Bottle Rockets, non è un maestro di scansioni ritmiche, ma il suo incedere rigorosamente in quattro quarti è monolitico e indistruttibile, ed essendo il batterista una buona metà di ciò che serve ad un gruppo, qui siamo già un passo avanti. Aggiungerci un bassista preciso che magari sa fare qualche background vocals (
Keith Voegele) rende il tutto ancora più funzionale e poi tocca alle chitarre che
John Horton e
Brian Henneman intrecciano senza cercare virtuosismi o particolari evoluzioni: insieme creano un sound compatto, elettrico, duro che però ha tutto un suo swing (ascoltare i southern accents di
Slo Toms per farsene un'idea) e riesce a districarsi nel vasto e bellissimo songbook dei Bottle Rockets. Qui, oltre all'eccitazione dei riff e del volume, bisogna puntualizzare che Brian Henneman non ha la visionarietà di Jeff Tweedy o la sfrontata prolificità di Ryan Adams, ma riesce ad infilare in un songwriting lineare tutta un'iconografia, un paesaggio e un mondo che, arrivati in fondo a quest'odissea rock'n'roll, diventa molto chiaro.
Le storie che racconta sono le stesse di Springsteen (
Waitin' On A Train e non a caso la coda chitarristica di
1000 Dollar Car richiama la melodia di The River), di John Mellencamp (
When I Was Dumb prende in prestito il riff di Hurt So Good) o di Neil Young che viene saccheggiato nei bis con
Hey Hey My My (Into The Black) e
Cortez The Killer. Con una personalità tutta sua perché se
Get Down River sarebbe una canzone straordinaria in qualsiasi versione (e qui è splendida), le altre vengono passate al vaglio dal rock'n'roll sound dei Bottle Rockets e allora non c'è soluzione di continuità tra
I'll Be Coming Around e
1000 Dollar Car, gli stacchi di
Nancy Sinatra hanno la precisione di una ghigliottina e gli attacchi di
24 Hours A Day e
Gravity Fails sono da urlo. Momenti di pausa ce ne sono pochini e comunque sono molto suggestivi:
Kerosene (bellissima),
Welfare Music (che prima o poi diventerà l'inno di un certo modo di vedere il rock'n'roll) o
At The Crossroads dove si respira un vago sapore agrodolce di Grateful Dead. Anche
Pot Of Gold (forse la più bella canzone in assoluto scritta da Brian Henneman) che però finisce negli encore, dopo
Hey Hey My My (Into The Black) e appena prima che le chitarre incendino
Lonely Cowboy, She's About The Mover e
Cortez The Killer.
Quest'ultima non è forse ai livelli olimpici dei Gov't Mule, ma i
Bottle Rockets sanno farsi rispettare (eccome) e ne tirano fuori una versione molto Zuma oriented con le chitarre che sono puro e semplice piacere elettrico (e a chi dice che sono strumenti obsoleti la farei sentire a tutto volume, in cuffia, con il repeat per dieci anni, poi se ne riparla). In aggiunta a tutto ciò, i Bottle Rockets infilano, alla fine dello show, un paio di videoclip (rigorosamente live) di
Nancy Sinatra e
Get Down River. Fin troppo generosi. Tra l'altro un nuovo album,
Zoysia, che i
Bottle Rockets hanno inciso nei leggendari Ardent Studios, è previsto per maggio. A quanto si racconta il disco è così potente che il produttore Jeff Powell è dovuto andare al pronto soccorso una volta finito di riascoltarlo. Se hanno suonato soltanto la metà di quello che fanno dal vivo, si può anche credergli.