DAN ISRAEL (Dan Israel)
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  Recensione del  30/01/2006
    

Nome abituale ormai quello di Dan Israel, almeno dalle nostre parti, della cui attività solista e in parallelo come leader dei Cultivators ci siamo sempre interessati. Un autore senza dubbio molto eclettico, lo dimostra il fatto che si divida tra l'estensione elettrica, tra country rock e power pop, dei suoi Cultivators (ultimo in ordine di tempo Love Ain't a Cliché nel 2002) e le mire decisamente cantautorali dei suoi lavori a firma solista, da semre più impacciati sulla direzione da intraprendere (vedi l'esordio Dan Who? del lontano 2000).
Più volte nominato tra le migliori firme del roots rock di Minneapolis, dove in questi ultimi anni ha fatto incetta di premi presso i locali Minnesota Music Awards, Israel ha sempre assecondato questa doppia personalità, mostrando senza dubbio un certo coraggio nel mettersi in gioco: se il beat elettrico e sbarazino dei Cultivators gli ha guadagnato estimatori nel circuito indipendente dell'alternative country ma non solo, le sue sortite in solitaria hanno spesso intrapreso strade più tortuose e vicine al cuore di un folksinger. La voce stozzata e monocorde lo ha tuttavia penalizzato non poco nella tenuta sulla distanza di questi lavori, come già ci era capitato di sottolineare nel citato Dan Who?, questo nonostante discrete capacità di scrittura e descrittive.
L'omonimo Dan Israel è purtroppo la conferma di tutto ciò, un apprezzabile autore (ricordi, temi famigliari e riflessioni sulla contemporanea società americana al centro di queste ballate), che in ogni caso necessita assolutamente di una rock'n'roll band per dare piena forma al suo songwriting, altrimenti destinato a spegnersi nella ripetitività. Registrato senza orpelli in casa, occupandosi di tutti gli strumenti (chitarra, basso, batteria ed un piano che compare nel finale di Plenty), il disco prova a fare il verso all'ultimo Paul Westerberg, quello di Stereo e Folker per capirci, di cui recupera quell'approccio grezzo e istintivo nel plasmare la materia rock (le spoche intrepretazioni bluesy di Question, Turnin' It Down, Ain't Nobody).
Purtroppo i numeri, la storia e l'ispirazione non sono gli stessi: non che Israel non sia in grado di sfoderare, lo ha già dimostrato con i Cultivators, melodie vincenti (Good Times) e gradevoli impasti elettro-acustici (Written in My Face, Mistery Train), ma i suoi personali basements tapes hanno colori un po' sbiaditi ed un attegiamento fin troppo informale.