Secondo album per il giovane chitarristasongwriter
Jason Wilber, dopo il buon esordio di due anni orsono
Lost in your hometown, e conferma di un talento da no sottovalutare. Wilber, come molti di voi ricorderanno, è da qualche anno il lead guitarist della touring band di
John Prine, e svolge questo ruolo anche nell'ultimo, splendido album del cantautore dell'Illinois,
Souvenirs. Come solista, Wilber ha diverse frecce al suo arco: l'influenza di Prine è certamente presente, ma Jason ha uno stile cantautorale personale, molto classico e maturo nonostante la giovane età. Wilber racconta storie di gente comune, di normale quotidianità, racconti tipici dell'heartland americana, tutto con notevole finezza ed una giusta dose di feeling, scrivendo brani profondi e di spessore.
Pura musica cantautorale quindi: da uno che si è fatto conoscere come chitarrista principale di una band ci si poteva aspettare un disco da axeman (forse anche un compito più semplice da svolgere), ma non da Wilber. Qui le canzoni non sono costruite intorno alla chitarra, ma è la chitarra ad essere messa al servizio delle canzoni. Tra i vari sessionmen troviamo anche il valido polistrumentista
Phil Parlapiano (anche lui colonna portante della Prine band) e, udite udite,
Mr. John Prine himself a duettare in un brano. Il disco si apre con
Lay down when you're done, una ballata molto cantautorale, profonda e vissuta: pochi strumenti ma tanto cuore.
L'orecchiabile
Indian summer è più mossa e ritmata, anche se la vena è sempre malinconica, mentre
Goin' fishin è una sferzata di energia, un rock'n'roll deciso alla Tom Petty, con un drumming secco e preciso. Molto bella
It's not Saturday, una classica ballatona acustica con leggeri ma sapienti interventi di pianoforte, dalla melodia eterea e struggente. Ancora rock con
The great twenty-eight: la melodia forse è già sentita, ma il ritmo è ben sostenuto dalla voce di Wilber e dalle chitarre, ed il piedino di chi scrive non riesce a stare fermo.
Dirty old town (l'unica non di Jason, è scritta da Ewsan McColl) è una ballad leggermente country, molto gradevole anche per il lavoro di Parlapiano alla fisa sullo sfondo.
Over the road è la più lunga del disco, ma è anche una delle più riuscite: ha il piglio epico di uno come Joe Ely, ed ogni nota di ciascuno strumento si incastra alla perfezione nel mosaico generale.
The Galway waltz è il brano in cui appare John Prine: la canzone, anche se è di Wilber, è prineiana al 100%, e la voce dylaniana di John fa il resto. Splendida.
Your only one è molto anni sessanta, e starebbe benissimo in un disco di Chris Isaak.
The ballad of Amazing Grace and Sideshow Dan è ancora figlia di Prine (fin dal titolo): un talkin' acustico, molto umoristico, con un leggero commento in sottofondo di tube e tromboni. Wilber è un cantautore completo: un brano di questo tipo non si scrive certo da solo.
I can't see you anymore chiude l'album in rilassatezza: una bella conferma, un nuovo cantautore da seguire negli anni a venire. Poteva fare il rocker, ma ha scelto la via più difficile: solo per questo andrebbe premiato.