Giusto per confermare l'eccentricità del personaggio, è quasi rassicurante constatare come
29 non corrisponda a nessuno dei rumors che ne avevano anticipato l'uscita: segno che a
Ryan Adams piace senz'altro "fare", e tre album in un anno avrebbero dovuto aiutare a capirlo, ma è nel "disfare" che sembra divertirsi maggiormente. Ultimo pannello, in ordine di tempo, di un trittico inaugurato dal rock'n'roll straccione dell'imprescindibile
Cold Roses e proseguito con il pensoso country-roots dell'altrettanto intenso
Jacksonville City Nights, 29 chiude il 2005 del ragazzo terribile del North Carolina con una ventata di cupezza e un picco di introversione forse inaspettati.
Di primo acchito, naturalmente, sorprende la decisione di lasciare in panchina i Cardinals, la backing-band che aveva contribuito in modo così significativo alla riuscita dei due album precedenti, ma addentrandosi negli ascolti ci si rende conto che difficilmente avrebbe potuto trovare posto in questo nuovo progetto. Spiazzante è anche l'atmosfera raccolta, intima e quasi confessionale che si respira pressoché in ogni brano, dacché qui non si parla di un improvviso "back to the roots" all'insegna dell'essenzialità acustica o del rigore tradizionalista, bensì di un'eterogenea ruminazione protratta per tre quarti d'ora, di un flusso di spunti e intuizioni (spesso frammentari) che prendono forma in canzoni talvolta bizzose, slabbrate, sconnesse finché si vuole eppure sempre e comunque affascinanti, vischiose nella loro spudoratezza e dominate da un'urgenza comunicativa che potrà sì disturbare i meno pazienti tra gli ascoltatori ma di certo non lascia indifferenti.
Una chitarra, qualche rintocco di pianoforte e alcune parentesi di elettrificazione indisciplinata, il tutto cucito dalla produzione quanto mai minimale del fidato Ethan Johns: a
Ryan Adams non serve molto altro per richiamare l'attenzione del proprio pubblico e condurlo attraverso un'odissea di solitudine, rimpianti, fotografie ingiallite, paesaggi notturni, amori rinsecchiti e scatti di rabbia che rappresenta il suo On The Beach, il suo Time Fades Away, il suo Tonight's The Night.
Il parallelo con Neil Young funziona a vari livelli, da quelli relativi alla dimensione fatalista e rassegnata che accomuna la citata trilogia a questa nuova sortita dell'exleader dei Whiskeytown (contate quante volte ricorre l'espressione "
we sink into the ocean") fino a quelli squisitamente musicali: se l'iniziale, sgangherato rock-blues della titletrack costituisce la classica eccezione che conferma la regola, in più di un passaggio i quasi 8 minuti della successiva
Strawberry Wine non possono non evocare la malinconia terminale di
Ambulance Blues, qui tuttavia affrontata in toni meno disperati e più inclini alla fuga onirica.
Secondo Adams, ognuna delle nove canzoni dell'album dovrebbe rappresentare una sorta di "commento" alle stagioni dei suoi vent'anni (una canzone per i venti, una per i ventuno, una per i ventidue... e così via); secondo la critica, cui
29 è stato recapitato in forma di promo privo di qualsiasi informazione se non i titoli dei brani, il disco andrebbe collocato accanto all'esordio
Heartbreaker (2000). Prendo per buone le dichiarazioni dell'interessato, che dipinge la decade appena trascorsa (adesso ha 31 anni) come un susseguirsi di "empty hearts" ed "empty moments", ma non sono d'accordo con l'accostamento al debutto solista, perché quello possedeva un'intrinseca forza rock che
29 non mette in mostra e perché se un paragone va fatto, allora bisognerebbe citare gli squarci lividi dei due sottovalutatissimi
Love Is Hell ('03), nel contesto dei quali non avrebbero stonato il lirismo di
Nightbirds (con tanto di rumore delle onde) o lo spettrale sottofondo pianistico di Starlite Diner.
Il pianoforte è lo strumento dominante anche in
Blue Sky Blues, altra ballata malinconica che tuttavia si concede persino il lusso di un fondale d'archi, mentre
Carolina Rain, commossa evocazione della provincia più solitaria e dei suoi dettagli paradigmatici, è un esercizio country-folk modellato sui primi vagiti del vecchio gruppo, e spunto però di qualsivoglia tentazione punk. Altro country, stavolta declinato in un verbo più vicino al rock che sarebbe piaciuto a Gram Parsons, lo si trova pure nella splendida
Elizabeth, You Were Born To Play That Part, in assoluto una delle migliori composizioni dell'intero catalogo dell'autore, che prima di chiudere l'album con la litania funebre di
Voices si toglie addirittura la soddisfazione di avvitarsi negli scossoni flamenco della trascinante
The Sadness.
Ignoro, a questo punto, se nella carriera di
Ryan Adams un disco illogico, contorto e contraddicono come
29 sia da considerarsi un passo avanti o un passo indietro, un punto di svolta o un arroccamento su posizioni consolidate, un ennesimo sproloquio narcisista o un onesto tentativo di mostrare le proprie cicatrici al pubblico probabilmente, un po' tutte queste cose insieme. Ma una cosa la so per certo, e cioè che, a patto di non pretendere omogeneità o coerenza, dischi impudici, confusi e sofferti come questi sanno parlare direttamente al nostro bisogno di metterci costantemente in gioco e in discussione, senza paura di farsi carico del dolore e dell'amarezza delle piccole sconfitte di tutti i giorni. E a conti fatti, visti i tempi, non mi sembra davvero poco.