KELLY PARDEKOOPER (House of Mud)
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  Recensione del  31/03/2004
    

Kelly Pardekooper è un nome nuovo per queste pagine, ma scorrendo la sua biografia ho scoperto che House of Mud è già il suo quarto album. Originario di Des Moines, Iowa, Kelly inizia giovanissimo ad appassionarsi di musica, frequentando vari clubs sia ad Iowa City che a Boulder, Colorado, dove si trasferisce per qualche anno; a poco a poco, prima in duo con la giovane moglie e poi con una band chiamata The Rage, comincia ad esibirsi in prima persona, non come cover band ma con un repertorio originale, frutto di anni di canzoni scritte nei posti più impensati.
Il suo esordio avviene a trentanni con l'album autodistribuito 30-Weight, che ottiene qualche buona critica a livello locale ma nulla più; Kelly ricomincia quindi a lavorare part-time per il giornale locale e ad esibirsi con più assiduità nei clubs, cominciando a conoscere ed a farsi notare da gente importante come Greg Brown, Teddy Morgan, Bo Ramsey e dal produttore indie Dave Zollo. Johnson County Snow, uscito nel 2000, ha reazioni più positive, grazie anche al nome che Pardekooper si è nel frattempo fatto come performer: non a caso il terzo album, Live at Gabe's, è registrato durante una di queste serate.
House of mud, uscito lo scorso anno, è un ulteriore passo avanti, sia dal punto di vista delle canzoni che da quello del sound, e risulta essere ad oggi il più riuscito lavoro di Pardekooper. Innanzitutto il disco si avvale della produzione attenta e professionale di Teddy Morgan, già noto su questa rivista per una serie di pregevoli albums, che assicura anche un validissimo supporto chitarristico in quasi tutti i brani dell'album, ma soprattutto il merito si deve a Pardekooper stesso, che compone una bella serie di canzoni evocative, dal classico sound Americana, passando con buona scioltezza dal blues al country, dal rock alla ballata d'autore, con uno stile abbastanza personale che non ha un punto di riferimento preciso, anche se qua e là spuntano influenze riconducibili ai Creedence e a Townes Van Zandt per quanto riguarda il versante più cantautorale.
Non è un capolavoro, ma un album onesto e sincero, che parte a spron battuto per poi normalizzarsi verso la fine, senza però mai scendere sotto il livello di guardia. La title track apre il disco in pieno stile "paludoso": ballata elettrica e spigolosa, densa di umori swamp, figlia di certe composizioni della band di John Fogerty. La countreggiante Drown in alcohol è più aperta e distesa, con le sue classiche sonorità californiane anni settanta: la melodia orecchiabile e gli ottimi interventi di Morgan all'elettrica fanno il resto. Whatever it was è l'unica cover (è di Greg Brown): la versione di Kelly è rockeggiante, dal ritmo coinvolgente, adatta ad essere suonata dal vivo tra una birra e l'altra.
La breve Hayseed girl è un midtempo pop con accenti psichedelici: esce un po' dal contesto del disco. Ci pensa Tell me quickly a rimettere le cose a posto: inizio acustico per voce e chitarra, con un andamento cantilenante alla Steve Earle, poi entra la band ed il brano assume i sapori di una western ballad di sicura presa. Forse la migliore del disco. La folkeggiante Highway home, completamente acustica, prelude all'intensa Can't go there: cantata con voce calda, con pochi strumenti alle spalle, è una pura songwriter ballad, di quelle che faceva il grande Townes. Tiny angel è un lento country un po' sgangherato, al quale però non manca un certo pathos; Hell's kitchen è triste e notturna, mentre la conclusiva Pray for rain è un'altra matura prova di songwriting. In definitiva un buon lavoro: dopo i difficili esordi Kelly Pardekooper (il cognome non lo aiuta di certo) ha trovato la strada giusta, e House of mud ne è la prova.