MARTY STUART & THE FABOLOUS SUPERLATIVES (Souls' Chapel)
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  Recensione del  18/11/2005
    

Marty Stuart, quarantasettenne di Philadelphia, Mississippi, seguace di Clarence White, eclettico personaggio che non si esprime solo in campo musicale, perché è anche fotografo, giornalista, storico, persino avvocato, si ripresenta fra di noi dopo la splendida prova per la Sony Country Music di due anni fa, forse la più bella di un'intensa carriera, con un ulteriore lavoro da applausi e strette di mano. Si tratta di un'altra concept opera, ci aveva già provato Marty con l'ottima The Pilgrim del '99, capace di fare il pari a Red Headed Stranger di Willie Nelson, dedicata alla musica del Delta, che risulta come un omaggio spirituale alle sue radici natie.
Quindi un album di gospel, che trasuda di fede e buoni sentimenti, dispensatore di gioia ed amore, che ci fa respirare l'atmosfera tipica delle chiese rurali e approfondire la tradizione afro americana del sud. Ma che riflette anche diversi altri stili come il blues, il soul, l'r&b, l'hard core country, il rockabilly. Una proposta, realizzata nel segno di Johnny Cash ed Elvis Presley e dei dischi della Sun Records, di grande valore cultural musicale. Dodici le tracce rilasciate per l'occasione da Marty e i suoi Fabolous Superlatives, già responsabili della precedente prova di studio, ovverosia il chitarrista Kenny Vaughan, supporter in studio tra gli altri, di Lucinda Williams e Patty Loveless, il batterista Harry Stinson, noto per il suo lavoro per la indie label Dead Reckoning e il batterista Brian Glenn, ex Opryland player, sorprendenti protagonisti di eccellenti impasti vocali a quattro voci.
Divise a metà tra nuove e vecchie, tra materiale originale e covers. Con Stinson, Marty compone Way Down, blues dalle liriche ispirate che sfoggia un insistente progressione chitarristica che ci fa ricordare Baby Please Don't Go di morrisoniana memoria e There's A Rainbow (At The End Of Every Storm), che appare come un classico soul gospel. Insieme con Vaughan il bel gospel rock Come Into the House of Lord, esplicita esortazione religiosa condotta da due turbinose chitarre e un organo Hammond, con Sullivan il racconto narrativo The Gospel Story of Noah's Ark dedicato ad un altro santo peccatore, ballad dall'arrangiamento interessante con il finale disegnato da un assolo tipico di Marty. Da solo firma It's time To Go Home, una preghiera vera e propria dal vivace ritmo rockabilly, con una chitarra in sottofondo che si trasforma in banjo e lo strumentale Soul's Chapel, la title track aperta dalle tastiere, dalla scorrevole melodia.
Stuart, da quando ne ha visto la performance in The Weight apparsa nel film della Band The Last Waltz, è diventato un fan degli Staple Singers e del loro chitarrista Pop. Così ha pensato a loro in questa circostanza quando è andato ad interpretare Somebody Saved Me, vecchio pezzo di famiglia del 1960, registrato quasi a cappella, quattro voci e una Telecaster suonata con tremolo dal grezzo aspetto blues, e Move Along Train, grande blues e grande performance vocale realizzata in partnership con Mavis, la bravissima figlia di Pop, che ci da davvero una scossa.
Per completare il disco si è poi rivolto ad Albert Brumley, di cui ha scelto di proporre il classico r & b del '58 Lord, Give Me Just A Little More Time, dove insiste un gradevole riff chitarristico, a Colbert e Joyce Croft, ripresi nel country slow, I Can't Even Walk, walzer senza tempo che suona come una vera e propria preghiera e alla coppia formata da Steve Cropper e William Bell, cantata nel capolavoro soul Slow Train, dove le lead vocals sono affidate ad un generoso Harry Stinson. Chiude l'elenco il public domain The Unseen Hand, stupendo gospel a più voci, vecchio inno dalle leggere e delicate armonie che conquistano.