Oh, sì, l'ha fatto di nuovo!
Neil Young ci ha consegnato il disco che tutti desideravano da lui da molti anni in qua, ma che in molti pensavano che il Grande Canadese non sarebbe stato più in grado di sfornare. Proprio così:
Prairie Wind è un capolavoro e s'infila direttamente nella Top 5 dei migliori album di Young di sempre. Parole pesanti se spese per uno che da 40 anni ci ha abituati a una produzione copiosa e ricca di pietre miliari. Classificabile a grandi linee nella stessa "vena acustica" di album come
Harvest, Comes A Time, Old Ways, Harvest Moon e
Silver & Gold (ricordate la regola del "disco perfetto ogni 7 anni"?),
Prairie Wind contiene elementi che rimandano un po' a tutti, eppure non somiglia a nessuno di questi lavori.
Azzarderei addirittura che, per la qualità delle canzoni contenute, per la cura degli arrangiamenti, per la pregnanza dei testi e per la "varietà" di atmosfere,
Prairie Wind potrebbe essere addirittura il suo lavoro più "completo" e maturo in questa vena. Dei problemi di salute avuti recentemente (un pericoloso aneurisma cerebrale rimosso con un delicato intervento la scorsa primavera) non traspare traccia (benché l'album sia stato concepito e inciso proprio a cavallo dell'intervento) se non in una serena malinconia dei testi, ricchi di immagini, di memorie dal passato e di considerazioni sul "sogno che sta sbiadendo" a rincorrersi proprio come se agitate dal vento della prateria.
Young ha realizzato un lavoro fortemente radicato nella sua tradizione (qua e là emergono evidenti autocitazioni che ogni appassionato younghiano avrà la gioia di scoprire da sé) ma anche in quella della musica americana "tout court": registrato a Nashville, l'album risente di una leggera speziatura country mai patinata o eccessiva, ma si dipana lungo i più scintillanti binari di un roots rock intenso e sincero. In questo senso appare subito come l'album più "roots" mai inciso da Young, che non lesina a tal scopo l'impiego di pedal steel (il fedelissimo
Ben Keith), sezione fiati, e perfino di un coro gospel. Tutto è funzionale al confezionamento di dieci canzoni che rappresentano indubbiamente la sua più felice "collection of new songs" dai tempi di Harvest Moon e forse ancora prima.
Per forma e contenuti
Prairie Wind rispecchia l'età e la statura artistica del suo autore, eppure suona insindacabilmente come una vera e propria "prova di forza" e di lucidità. In mezzo a canzoni abbastanza "canoniche" per gli standard younghiani recenti (
The Painter, che pare una dedica a Joni Mitchell;
This Old Guitar, ispirata dalla chitarra appartenuta ad Hank Williams e cantata "cuore a cuore" con Emmylou Harris;
Here For You, archetipo di quello che potrebbe essere un vero hit single di successo, se solo fossero altri tempi) il canadese infila con piglio sicuro una manciata di gioielli su cui svettano
No Wonder, un brano che per passo epico, intensità, complessità armonica e melodica, struttura, testo e arrangiamento, potrebbe provenire dal "periodo d'oro" (e non ancora completamente sviscerato, aspettando gli Archivi) del biennio 74/75, e la tenue ballata pianistico/orchestrale "spaccacuore"
It's A Dream. Ma in
Prairie Wind c'è anche lo Young intimo/confidenziale che osa dispiegare tutto il suo inconfondibile e incerto registro vocale (bassissimo/altissimo) per la toccante
Falling Off The Face Of The Earth dedicata al padre da poco scomparso, e perfino un Neil "inedito" che ci fa viaggiare in un'incalzante cavalcata nelle Praterie (la title track, appunto) degna del miglior Bruce Cockburn (l'altro Grande Canadese), o ci trascina nel divertissement "Memphissound" (quasi Mellencamp) di
He Was The King, una delle più gustose e divertenti canzoni mai dedicate ad Elvis (questa volta non il suo cane, ma il vero Re del R&R!).
In coda, aggiunta quasi come postilla, c'è quella che potrebbe in futuro essere ricordata come la sua
Imagine o, se preferite, la sua
Let It Be, data la vaga reminiscenza nel fraseggio pianistico:
When God Made Me è una ballata dal sapore gospel eseguita con l'accompagnamento di pianoforte, organo Hammond (un altro grande: Spooner Oldham) e un coro di voci nere destinata a diventare un vero e proprio classico, con quella melodia dalla semplicità quasi puerile trasfigurata in una grande canzone sul dubbio e sulla fede da un testo memorabile (specie in questi tempi di guerre nel nome di Dio). Alla soglia dei 60 anni,
Neil Young ci ha consegnato uno dei suoi migliori album di sempre. Longmay you run, Neil.