Si potrebbe tranquillamente liquidare
Childish Things in due righe. Vi è piaciuto
Saint Mary Of The Woods, sapete chi è (ormai è in giro anche lui da vent'anni), prendere o lasciare perché
James McMurtry cambia poco o nulla. I musicisti sono quelli di sempre:
Daren Hess alla batteria e
Ronnie Johnson al basso; lui suona la chitarra, l'armonica, l'organo, il piano e un po' di mandolino in
Bad Enough;
David Grissom gli fa compagnia in tre canzoni;
Joe Ely duetta in un'altra;
Bukka Allen si destreggia tra fisarmonica, piano e organo.
Altro lavoro viene svolto da
Tim Holt alle chitarre (che generalmente è l'ingegnere del suono degli Heartless Bastards live), da Randy Garibay Jr. (il suo primo bassista) alle background vocals. Le eccezioni, se così si possono chiamare, sono suo figlio Curtis McMurtry che suona il sassofono in
See The Elephant e in
Pocatello, l'occasionale trombone di John Blondell (molto bello in
See The Elephant) e infine dal contrabbasso suadente di Chris Maresh per
Holiday.
Novità vere e proprie, come si può vedere, non ce ne sono, ma forse è meglio così perché
James McMurtry continua indomito nell'esplorazione di quel microcosmo misterioso e affascinante che è il suo songwriting. Cominciato con
Too Long In The Wasteland e proseguito in una mezza dozzina di dischi e un'infinità di concerti dal vivo (la sua filosofia è piuttosto banale: "
Facciamo dischi per andare in tour e andiamo in tour per fare dischi", e amen) il suo lavoro si è cristallizzato attorno ad una forma di canzone, scarna e profonda, strettamente legata ad un sound chitarristico crudo ed elettrico, senza un fronzolo che sia uno.
Childish Things è la somma definitiva non soltanto delle sue abilità di songwriter (tra i migliori in assoluto della sua generazione) e di musicista, nonché di una coerenza tanto cristallina da sembrare monotona, ma anche di un atteggiamento di rifiuto totale dei moderni clichés, dei luoghi comuni e delle banalità.
Prendere o lasciare, appunto. Si può benissimo fare a meno di
James McMurtry, come noi facciamo a meno di tutti i dischi alla moda, dei best seller e delle adunate oceaniche (che poi sono sempre un po' ambigue). Si tratta di scegliere da che parte stare e James McMurtry è uno che ha scelto, da tanto tempo ormai. Prendete la title track: è una canzone
James McMurtry al cento per cento che avremo sentito almeno sei o sette volte. Eppure dietro il breve inciso chitarristico di Tim Holt c'è un verso enigmatico, ma nello stesso tempo molto esplicativo del senso generale di
Childish Things, quando
James McMurtry ripete: "
Non credo nel paradiso, ma continuo a credere nei fantasmi". Quando si dice la precisione: un attimo dopo spettri (del presente e del passato) e paure (del futuro) diventano
We Can't Make It Here, un grandissimo pezzo che negli Stati Uniti sta suscitando gli stessi conflitti e le stesse censure dall'uscita di
John Walker's Blues di
Steve Earle.
Un disc jockey è stato sospeso per una settimana (senza stipendio) solo per averla trasmessa. Altre emittenti radiofoniche si sono rifiutate persino di prendere in considerazione l'intero disco, mentre
James McMurtry ha ricevuto dozzine di lettere di protesta (a cui, tra l'altro, ha sempre risposto con una certa puntualità), ma anche un sacco di segnali di solidarietà, non ultima quella di
Stephen King. In realtà la scarnissima
We Can't Make It Here, che nella struttura armonica ricorda un po' Ohio di Neil Young, è soltanto un piccolo patchwork di immagini, senza dichiarazioni d'intenti, come già a suo tempo erano state Rain On The Scarecow di John Mellencamp o Born In The USA di Bruce Springsteen.
Veterani mutilati che chiedono l'elemosina, fabbriche che chiudono, vite che si dissolvono, politici chiusi nelle loro limousines, prendono forma nell'amarissimo (ed elettrico) talking blues di James McMurtry. Non è un caso che dia così fastidio: è un ritratto impietoso dell'America di oggi. La tensione si allenta un po' con
Slew Foot, tema che
James McMurtry riprende da una canzone resa famosa da Johnny Horton negli anni Cinquanta. Il duetto tutto texano con
Joe Ely (sempre grande) vale da solo un paio di stelle. Un'altra conoscenza comune, David Grissom, incrocia invece la chitarra (peraltro in modo molto coinciso e rispettoso) in
Bad Enough, Restless e in
Pocatello (uno strepitoso rock'n'roll dove si lascia andare un po' di più).
Qualche raffinatezza la dispensa Bukka Allen (buon sangue non mente) con il piano honky tonky in
Old Part of Town e una magnifica fisarmonica in
Charlemagne's Home Town: due canzoni che gareggiano in bellezza con
Memorial Day e
Six Year Drought. Questo è il
James McMurtry per cui non bisogna aggiungere nulla, se non il finale, altrettanto splendido, di
Holiday, una delle sue rare ballate acustiche. Lì in fondo a dire il vero
James McMurtry tira fuori persino una voce che non avevamo mai sentito, ma la sua forza, che è poi quella di
Childish Things, è quella di essersi schierato. Dalla parte della strada, dei fantasmi, delle canzoni, delle chitarre e del rock'n'roll.