Dopo aver vinto il disco di platino con
Bringing Down We Horse e aver flirtato con lo showbiz con due album,
Breach e
Red Letter Days, scaltri e per nulla memorabili,
Jakob Dylan ha pensato bene di darsi una regolata e di ritornare a concentrarsi sulla musica piuttosto che sulla celebrità.
Rebel,Sweetheart è un cambio di rotta rispetto agli ultimi lavori ed è un passo deciso verso mete diverse da quelle del pop furbo e commerciale che avevano contrassegnato sia
Breach che
Red Letter Days. In poche parole è un ritorno allo stile dei primi album, a quel rock intriso di pop e belle ballate che avevano rivelato i
Wallflowers come una delle realtà più fresche del giovane rock americano.
I Wallflowers non sono una band trascendentale ma sono una delle poche band giovani rimaste a suonare una musica semplice e ariosa, che si rifà al rock d'autore americano e al pop inglese di stampo classico. Aiutati dalla sapiente regia di Brendan O'Brian, Jakob Dylan e compagni ritornano a far muovere le canzoni con il piglio e le velocità giuste, allontanandosi dalle formule sicure e affrontando con una nuova naturalezza temi di disillusione e perseveranza, storie d'amore piene di conflitti, col disincanto del giovane Warren Zevon (
Here He Comes(Confessions Of A Drunken Marionette)e
How Far You've Come) e col timbro del primo Elvis Costello (
All Things New Again, We're Already There) senza dimenticare una certa rabbia giovanile in brani che sanno di classico rock anni 70 alla Tom Petty.
Ridefinita la line up con l'inserimento del nuovo batterista Fred Eltringham e confermati il bassista Greg Richling e l'ottimo tastierista Rami Jaffee, artefice del sound del gruppo, i
Wallflowers realizzano un album di estremo equilibrio, dove brani elettrici e parti acustiche, rock da band e pop d'autore, ballate e pezzi veloci si intrecciano in una amalgama che convince senza occhieggiare troppo al commerciale e senza soddisfare i cliché di banalità proprie della produzione videomusicale.
Rebel, Sweetheart è la giusta via di mezzo tra rock e pop, tra canzoni e ritmo, con l'ombra di Costello che sovrasta, anche per via della particolare voce nasale di Jakob Dylan, quasi tutti i brani.
Si parte veloci con
Days Of Wonder e si passa per
The Beautiful Side of Somewhere, titolo ermetico per un pezzo alla Petty con chitarre aperte e un sapiente uso delle tastiere. Arriva prima di
Here He Comes (Confessions Of A Drunken Marionette), stesso andazzo di chitarre e un piano che punteggia una corsa su qualche autostrada californiana, col fantasma di Zevon che sbircia dall'alto. Sono le due canzoni e ci aggiungerei anche la roccata
Back To California di più forte appeal radiofonico, intendendo con ciò una virtù e non un difetto, e servono da modello per brani ariosi e brillanti che danno a
Rebel Sweetheart quel tocco fresco, giovanile e rock che oggi si trova solo nei dischi degli Wallflowers e dei Counting Crows (a parte l'onda roots).
Ma altrettanto convincenti sono i brani più introspettivi, ballate come
God Says Nothing Back e
From The Bottom Of My Heart cantate e suonate in punta di piedi in uno stile da perfetta canzone d'autore, tenere proprio per la confidenza di sogni e disillusioni di cui sono portatrici. Esempi di un songwriting, quello di Jakob Dylan, che non sempre riesce ad essere travolgente ma che, con la produzione di Brendan O'Brien, in
Rebel Sweetheart torna ad essere convincente.