JOHN HIATT (Master of Disaster)
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  Recensione del  25/06/2005
    

John Hiatt è uno dei nostri beniamini. Non è certo un mistero. È anche uno dei migliori cantautori che la musica Americana ha prodotto negli ultimi trenta anni: lo dimostra la sua produzione discografica e lo conferma la sua continuità. Dopo più di venti album, dopo oltre trenta anni sulla breccia, Hiatt conferma tutto quanto di bene è stato detto su di lui. Master of Disaster, malgrado la copertina a dir poco orrenda, è uno dei suoi dischi migliori. Un pò del merito va a Jim Dickinson che ha spruzzato con gli umori del Sud le ballate di John, il resto va al nostro che ha scritto una manciata di canzoni di grande qualità. Non tutto è perfetto, prendiamo Wintertime Blues ad esempio.
Un blues con un fondo jazz che è decisasmente già sentito. Ma poco importa di fronte al resto. L'apertura sontuosa di Master of Disaster con il sax che bagna una ballata fluida e creativa, dotata di una linea melodica che cattura all'istante, con la voce che duetta bellamente con il resto della band. Una canzone che segna il disco in modo indelebile. Poi arriva Howlin' Down The Cumberland, una folk ballad dai toni rarefatti, suonata con una strumentazione scarna, cantata con il cuore che pulsa: una canzone viva che cresce solco dopo solco. Thunderbirds è un piccolo capolavoro.
Un sapido brano rock dalla cadenza fluida e dalla melodia geniale: una canzone che racconta di macchine e di cuori, di strade e di sentimenti. Una canzone che celebra la genialità del suo autore e che ci regala il terzo grande brano di Master of Disaster. Oltre a Dickinson buona parte del merito vai ai due figli di Jim, Luther e Cody, che offrono un bel tappeto di suoni, coadiuvati dalle tastiere di East Memphis Slim e dalla sezione di fiati di Memphis, quindi southern style, fornita da Dickinson padre.
Fiati che appaiono qui e là ma che danno un tono tutto particolare al disco. Ma Hiatt sa come fare crescere la sua creatura e con When My Love Crosses Over scrive una delle sua ballate roots più belle e sentite. Una armonica dylaniana, una melodia in puro stile Americana, una ballata di grande bellezza e di ampio respiro, una di quelle canzoni per cui vale la pena andare in Usa, noleggiare una macchina e guidare lungo quelle strade a perdita d'occhio, suonandola a volume molto alto. Musica e libertà. Hiatt esprime perfettamente il concetto e regala pagine di grande musica.
Love's Not Where We Tought We Left It ha una sua dignità e, grazie alla cura di Dickinson, un suono teso e ricco: non un grande brano, ma una canzone che sta bene nel mazzo perché si differenzia dalle altre. Ain't Ever Going Back è invece splendida. Si può mettere sullo stesso piano di When My Love Crosses Over: è suggestiva, coinvolgente, romantica, evocativa. Una canzone dai toni smorzati, una ballata folk rock in cui la voce gioca un ruolo primario mentre la musica le si avvolge attorno.
Il crescendo della melodia e l'intensità del brano la portano ad essere considerata tra le più belle del disco. Cold River non scende di un pelo e ci regala ancora grande musica. È già la sesta canzone di qualità superiore e, credetemi, non è poco. Altra canzone intrisa di tradizione, suonata in modo scarno, con la voce che la rende più bella ed una melodia di fondo che ricorda pagine celebri della canzoni d'autore Americana. Find You at Last ci riporta in un ambito rock: buon brano, intessuto sulle chitarre, con una rhythm section solida. Non è come la precedente, ma il fondo blues e la vocalità di Hiatt le danno lustro. Siamo alla fine. Giusto in tempo Old School: si tratta di un'altra composizione di grande spessore.
Una filastrocca country dal tessuto folk, lieve nei suoni, semplice nella linea melodica, ma decisamente coinvolgente. Chiusura in bellezza, ma in maniera decisamente southern. Back on the Corner sembra registrata a New Orleans (e non a Memphis, come il resto del disco): l'uso dei fiati e la melodia stessa, l'arrangiamento e la voce di John, ci riportano nella Crescent City ed alle sue ricche tradizioni musicali. Un album che si stacca decisamente da Beneath This Gruff Exterior e che ci consegna un John Hiatt più autore e meno rocker.
Il disco ha suoni meno elettrici ed una atmosfera amichevole, quasi conviviale, che lo differenzia decisamente dalla sua produzione discografica. E poi, a conti fatti, contiene sette/otto canzoni di grande spessore che lo rendono, senza alcun dubbio, uno dei migliori della sua copiosa discografia. Il Sud fa bene, anche a John Hiatt.