Sceglie il classico doppio album dal vivo
Lucinda Williams, come si usava negli anni 70 e nel periodo d'oro del rock, per omaggiare quel pubblico che da un po' di anni la segue fedelmente attraverso dischi di grande presa emotiva e profonda introspezione. Dopo il rispetto e il relativo successo conquistatasi con
Car Wheels On A Gravel Road,
Essence e
World Without Tears, lavori che l'hanno proiettata nelle sfere alte della canzone d'autore americana, era logico aspettarsi la prova dal vivo e così è stato. Nel mitico Fillmore di San Francisco
Lucinda Williams ha suonato per tre sere di fila nel novembre dello scorso anno accompagnata da una band ridotta all'osso comprendente il chitarrista Doug Pettibone, il bassista Taras Prodaniuk e il batterista Jim Christie.
Da quelle serate è scaturito un doppio live di ventidue canzoni scelte appositamente dall'autrice per riaffermare la sua doppia e complementare identità, quella della rockeuse e quella della cantautrice.
Live @ The Fillmore si dibatte tra queste due anime, da una parte ed è quella prevalente c'è la Williams innamorata della sconfitta con ballate tristi e dolenti che traspongono un sud povero e retrivo dove le ombre hanno più risalto delle luci e la difficoltà del vivere è palese e tangibile, dall'altra c'è una rockeuse che fa del rock n'roll un mezzo per sfuggire alla malinconia che la circonda, fa gridare le chitarre e non si accontenta di affogare nel fango della desolazione, urla e reagisce guidando un trio elettrico crudo e al sangue che suona come una garage band.
Ne esce un disco che inizia laconico e nostalgico con tre magnifiche ballate, la superlativa
Ventura,
Reason To Cry e
Fruits Of My Labor e finisce alla stessa maniera con la roca e cadente
Bus To Baton Rouge e con la lenta e rarefatta
Worlds Fell ma in mezzo ci sono i colpi bassi e i toni duri di
Out Of Touch, di
Atonement e
Lost It, le chitarre distorte di
Righteously e
Joy, i muscoli di
Pineola e gli Stones di
Real Live Bleeding Fingers and Broken Guitar Strings a testimoniare della natura rock del disco e di un sound equamente diviso tra aggressioni e tenerezze con echi di Tom Petty, Dylan, Steve Earle, urban blues e country-folk, il Neil Young di
Tonight's The Night e quello di Zuma.
Che non sia proprio un live degli anni settanta lo testimonia il finale che non sale trionfale verso l'apoteosi con tutto il corredo di ovazioni che ne consegue ma dopo una parte centrale in cui sono le chitarre e una batteria pestata secca a dominare la scena preferisce ripiegarsi negli umori blu della Williams con una lap steel che in
Worlds Fell sembra lasciare strascichi di comete in un cielo scuro dove non sono le stelle a cadere ma le parole. Che a volte fanno sfracelli più di una meteora.
Lucinda Williams ringrazia con
love, peace and revolution e rimanda la festa ad altre occasioni. Un finale coerente con i temi tristi di
Essence e con chi ha fatto della parte solitaria dell'esistenza e del romanticismo della sconfitta uno dei motivi della propria musica e del proprio scrivere. Ballate di infinita tristezza come
Lonely Girls, Overtime, Are You Down e
Blue anche qui, nella versione live, con la voce della Williams disperata ed espressiva più che mai risuonano ancor più drammatiche.
Ma dopo
Essence nella storia di Lucinda Williams è arrivato
World Without Tears, l'album che ha elevato la cantautrice a rango di rockeuse con tutti quello sferragliare elettrico e quei riferimenti a Neil Young e agli Stones degli anni 70, naturale quindi che
Live @ The Fillmore rispetti quei cambiamenti in senso rock n'roll costituendo il nucleo centrale dello show e del disco con ben undici brani su ventidue. Oltre ai titoli già citati c'è difatti la magnifica
Sweet Side, un dondolio dolce e accattivante,
Those Three Days, l'ipnotica e riflessiva
American Dream che con la sua atmosfera notturna e noir sembra presa da The Big Heat di Stan Ridgway e l'accorata
World Without Tears.
Sei invece i brani estratti da
Essence, solo due (un peccato)quelli di
Car Wheels On A Gravel Road e due i rimasugli del passato più remoto,
Change The Locks arriva dall'album omonimo del 1988 e
Pineola da
Sweet Old World del 1992. C'è abbastanza materiale per convincersi che
Lucinda Williams non è più un personaggio di secondo piano derivata dall'immensa tradizione della canzone d'autore country-folk ma uno dei grandi nomi del rock americano del nuovo secolo.