HAYMAKER (Music From Ed's House)
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  Recensione del  12/05/2005
    

La musica l'hanno veramente registrata nella cucina del loro batterista, così come sottintende il titolo Music from Ed's House, l'esordio per un pimpante quartetto di Long Beach, California, che non nasconde il suo amore per il rock'n'roll più spensierato. Gli Haymaker non suonano note sconosciute e nemmeno riescono a portare aria nuova nello stile in cui hanno deciso di muovere i primi passi: propongono solamente una trentina di minuti e poco più di frizzante rock provinciale, leggermente venato di country e radici, ma soprattutto un buon senso del ritmo e della melodia, che spesso fa riaffiorare un profumo di sixties.
A condurre il gioco le chitarre di JW Surge e Mike Bay, che guarda caso sono anche i due autori indiscussi del materiale presente, undici brani poco appariscenti che hanno fatto scomodare la stampa locale in paragoni un po' altisonanti. A turno si è parlato di Del Fuegos, per il lato più selvaggio, e BoDeans, per quello più pop, forse sviati dalle dolci armonie vocali che si affacciano di tanto in tanto. Siamo fuori strada, non solo perché la statura del repertorio non permette certi accostamenti, ma perché la ricetta degli Haymaker sembra decisamente e forse anche volutamente più povera, con una tendenza West Coast che segna i momenti più countreggianti, a cominciare dall'iniziale Heather Lee.
Il talento insomma è artigianale e nonostante certe mescolanze tra roots music e pop possano anche richiamare i mai dimeticati BoDeans (Uneasy Street, il jingle jangle irresistibile di Morphine Dump), così come tutta la generatone californiana degli anni ottanta (dai Blasters ai Long Ryders ci stanno tutti), gli Haymaker non passano certamente per degni eredi di quel suono, quanto piuttosto un divertente combo che nel grande mare dell'Americana ha pescato una formula antica, distanziandosi dalle produzioni più recenti di altri colleghi. Ecco spiegato il motivo per cui Music From Ed's House regala più di un sorriso, sebbene non si dinstingua per originalità e coraggio. C'è molto rock'n'roll nella testa di questi ragazzi, di quello più schietto che ha nutrito una lunga schiera di outsiders.
Senza colpi di genio negli arrangiamenti, ma aggiungendo spesso un piano boogie (Hal Ratliff) passano dal ritmo gigione di You Don't Know Me e Making Good Time (un tuffo nel beat della british invasion) al nonsense lirico di Pain in The Ass (non brillano certo nella stesura dei testi), dal roots rock distensivo di Stand my Ground e Tear Me Down alle chitarre elettriche spiegate e fumanti di What's That Got To Do With Me?, per chiudere il viaggio nelle note bucoliche, con tanto di pedal steel (Steve Miller) e violino (Ann Dejarnett), di Afterthought. Non sono cavalli di razza, piuttosto degli onesti gregari. Servono anche quelli.