MARTY STUART (Once Upon A Time)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Leggerete cose turche su questo album, vedrete ben poche stellette o palline nei giudizi delle riviste, e potrete notare un po’ di fiele anche nelle parole di recensori usualmente molto generosi. Parlo delle riviste americane, naturalmente, sempre molto attente al rispetto del consumatore.
Gli è, fondamentalmente, che questo non è un disco nuovo, ma è stato presentato come tale (o almeno senza dire che dentro non c’è una canzone nuova che sia una) in un momento di discreta gloria per Marty Stuart, evidentemente nel tentativo di sfruttare l’attuale sua popolarità per vendere un po’ di più. Once Upon A Time, in effetti, è solo una raccolta di pezzi (e di buono c’è che sono tantini, 16) da vecchi dischi della Nashville Grass, con o senza Lester Flatt, dischi registrati in un ampio e non precisato lasso di tempo, e tra l’altro ancora disponibili in grande maggioranza come LP.
Stuart è ovviamente la stella della raccolta, che tira a mettere in bella evidenza la sua bravura strumentale, ed è in questo ottimamente sostenuto dai vari Curly Sechler, Kenny Ingram (mio idolo da tempo), Charlie Nixon (idolo di sua sorella e pochi altri…), Tater Tate, Blake Williams e Pete Corum. E Lester, che per primo seppe capire che in quel ragazzino di 12 anni da Philadelphia, Mississippi, c’era molto di buono.
Che altro dire? Nulla di nuovo, copertina allucinogena e allucinante, niente date nemmeno per sbaglio, registrazioni quasi migliori dal vivo che in studio, band ineccepibile ma fantasia poca (meglio alcuni degli originali, specialmente quelli registrati ai festival), un andazzo genericamente da disimpegno e senza un indirizzo preciso di compilazione. La band è buona e Stuart è bravo, ma tutto finisce qui. C’è di buono che da noi pochi avranno gli LP originali, quindi il consumatore non si offenderà per la presa in giro. Ma adesso mi tocca vendere un CD…