Viene facile invidiare un uomo come
Garnet Rogers, solo guardando la copertina di questo
Shining Thing. Immagini bucoliche, cieli e alberi e quei colori, i colori della terra e del cielo e delle nuvole, i colori di una vita vissuta (dentro e per) tutte quelle cose che ai più, per scelta o necessità, sembrano tanto scontate da non prestare loro attenzione. Lui invece presta attenzione, si ferma e ascolta. Ascolta il vento e ascolta gli uomini e le donne che vi corrono incontro, e li guarda e si guarda, lui con loro, nel vento, nella pioggia, nel sole.
Uno storyteller insomma, ma uno di quelli che sa come si racconta una storia, perché sa che il raccontare vale sempre di più della storia. Uno che sa raccontare al di là delle parole, peraltro combinate a formare piccoli film di pochi minuti, e che con la stessa sapiente stringatezza usa e piega al suo racconto le voci di pochi strumenti prevalentemente acustici, declinati nei linguaggi del folk di stretta discendenza europea, ma anche del blues. Dentro a
Shining Thing, dodicesimo capitolo della sua discografia, si respira serenità, ed è una piccola piacevole novità per uno come Rogers, più spesso attratto dal lato sbagliato della strada.
Quella tutta acustica di piccoli bozzetti strumentali come
Three Small Coats, della prorompente spensieratezza di un gospel rockato e rollato come
Oh How Happy o di ballate lievi e palpitanti come l'iniziale
Soul Kiss. Accanto a queste, e sono allora le pagine più belle, i lunghi racconti di
More Hallowed, ritratto di un dimenticato veterano della Seconda guerra mondiale e
Twisting In The Wind, nervosa ballata tra folk e rock, e la dolcezza di una love song come
The Waiting.