Molte volte ci si trova di fronte ad una band o ad un solista, e non si sa nulla di nulla. Allora si va a leggere, si apre la rete e si fanno ricerche e viene fuori che il tal gruppo o il tale solista ha una bella storia e, anche, qualche disco alle spalle. Questa è un pò la storia del Bostoniano
Stephen Kellogg e dei suoi Sixers. Una bella storia on the road alle spalle, con un lungo tirocinio, 300 date l'anno e anche quattro dischi pubblicati a livello indie, con vendite discrete sino al piccolo boom di
Bulletproof Heart, diecimila copie in pochi mesi. Kellogg ed i suoi Sixers fanno rock, sano e classico, assomigliano un poco ai
Counting Crows, se proprio vogliamo trovare un punto di contatto, usano chitarre e piano in modo diretto e, cosa più importante, scrivono canzoni di buon valore.
Basterebbe ascoltare l'apertura di
Flower in the Rain o la sapida
Such A Way, per rendersi conto che i ragazzi ci sanno fare. Niente di nuovo, questo è vero, ma un disco che si suona dall'inizio alla fine, che non ha cedimenti di sorta e che si ascolta e si riascolta volentieri. Sono sulla breccia da diversi anni, sono in tre e sono molto uniti: oltre a
Stephen Kellogg, i Sixers sono formati da
Keith Karlson e Brian Factor.
Hanno inciso quattro album, prima di questo debutto su major:
Early Hits, South of Stephen, Lucky Eleven ed il già citato
Bulletproof Heart. Classico rock con chitarre piano e batteria: Kellogg ha una voce solida e la band suona con il fervore giusto. Al resto ci pensano le canzoni. Canzoni che rispondono a titoli come
Maria, che ha un riff rock iniziale di stampo classico,
You've Changed, ruvida e pressante,
My Sweet Charade, solida ed espressiva.
E via di questo passo. Non c'è una canzone sotto tono e la produzione, opera dell'esperto
Andy Zulla (che ha lavorato in passato con Rod Stewart, Elvis Costello, Jessica Simpson ed altri) da quel tocco di professionalità che forse mancava ai dischi precedenti. Solo un pizzico di personalità in più e ci troveremo di fronte ad una band da seguire per lungo tempo.