Terzo album per
Martin Zellar, giovane rocker di Minneapolis, e dei suoi Hardways (Dominic Gola, Mare Retish, Dan Neale e Patrik Tanner), dopo l'esordio
Born under, targato '95, ed il disco autointitolato di due anni fa. Questi due buoni albums ci presentavano un rocker puro e sincero, che componeva ballate urbane di discreta intensità, cantate con voce molto espressiva , e che si ricollegava a quel filone rock stradaiolo caro a gente come Springsteen, Mellencamp, Earle e Seger (soprattutto i primi due). Ecco, forse il difetto stava proprio in questo: la musica di Zellar era si genuina e spontanea, ma indubbiamente derivativa, il che rischiava di farlo sembrare uno dei tanti imitatori del Boss & Co. Ma Zellar, che non è uno stupido, ha cambiato le carte in tavola, e con questo
The many moods of... realizza il suo capolavoro, consegnandoci un disco personale, vario, che cammina con le proprie gambe, scrollandosi così di dosso le pesanti eredità citate prima.
Certo, qualche richiamo alle sonorità dei dischi precedenti c'è ancora, ma è poca cosa in confronto alla personalità e alla sicurezza delle nuove composizioni di Martin, eseguite con il piglio del rocker più consumato: in poche parole, un grande disco. Non pensavo sinceramente ad un miglioramento di tale portata. Ballate sincere, aperte, comunicative, suonate con grande padronanza e cantate con la solita voce roca: se vi sono piaciuti i dischi di Paul Thorn e Matthew Ryan non dovete farvi sfuggire questo album. Si parte subito benissimo con
Blow kisses: è già grande musica, una splendida ballata notturna, tra le più belle ascoltate quest'anno, con una melodia toccante e un emozionante organo in sottofondo. La ritmata
Goodnight Meridel, con tanto di fiati, è più simile alle vecchie cose del Boss, ma è comunque un puro piacere per le orecchie;
Freeze this feeling è un'altra ballata ariosa dalla grande compattezza di suoni, con un pianoforte notevole (Tanner).
Intendiamoci, Zellar non inventa nulla di nuovo, ma rielabora con gusto e passione, mettendoci quel quid di personalità che lo eleva dalla schiera degli imitatori.
Clues è il cambio di rotta che non ti aspetti: attacco di banjo, tempo quasi bluegrass (vicino a certe cose di Steve Earle) e violini per un brano che solo un americano verace può fare con tanto feeling.
Con Carolyn rimaniamo in ambiente campagnolo: honky-tonk cantato in maniera splendida e suonato ancora meglio (sentite il piano):
Time and time again è «solo» un'altra bella blue collar ballad densa di suoni ben amalgamati;
All I need è un favoloso boogie elettrico, con il solito giro di chitarra già sentito mille volte ma sempre coinvolgente, e voce sporca quanto basta.
Tomorrow is too late allmaniana e con una bella slide a guidare le danze, è un altro cambio di rotta molto riuscito,
1.000 miles away, con echi western, è epica e pulsante, mentre la conclusiva
Marching beside him, lenta e maestosa, è un quasi gospel con tempo da marcia militare. Inutile spendere altre parole: fate vostro questo disco e ne rimarrete conquistati.