MARTIN ZELLAR & THE HARDWAYS (Martin Zellar & the Hardways)
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  Recensione del  29/01/2004
    

Will T. Massey, Michael McDermott, Billy Falcon, Willie Nile, Larry Crane, Joe Grushecky. Un elenco che preso così potrebbe dire poco, ma un attento buscaderiano avrà già capito: sono tutti rockers riconducibili a quello stile, figlio di Springsteen e cugino di Earle e Mellencamp, fatto di ballate elettriche stradaiole, di racconti di vita semplice e quotidiana che abbiamo imparato ad amare grazie al Boss.
Martin Zellar fa parte di questo «movimento», e ne è forse uno dei più autorevoli esponenti, almeno rispetto ai nomi che ho citato all'inizio: Massey ha esordito alla grande nel '91 e poi è sparito, McDermott non ha più bissato l'ottimo esordio, Nile incide ormai con una cadenza degna di John Fogerty, Falcon non mi ha mai particolarmente convinto, Crane non ha una gran fantasia; Joe Grushecky, forse il migliore del gruppo (in questo momento, in quanto in assoluto Willie Nile è superiore a tutti gli altri messi insieme), è fuori gara, visto che ha ricevuto un consistente aiuto da Mr. Springsteen in persona.
Resta quindi il nostro Zellar, che non solo ha esordito più che bene lo scorso anno con «Born under», ma ora si ripete, oltretutto migliorandosi. Il ragazzo di Minneapolis si circonda di una nuova band, gli Hardways (non conosco i nomi dei singoli musicisti, in quanto le uniche informazioni in mio possesso sono i titoli delle canzoni ed il loro autore, Zellar, appunto), e ci consegna un dischetto forse derivativo in alcuni punti, ma che a lungo andare cammina con le proprie gambe.