STEVE PRIDE AND HIS BLOOD KIN (Pride on Pride)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Si presenta sfacciatamente con la copertina di Songs of love and Hate di Leonard Cohen o meglio di The times they are changin' di Bob Dylan, Steve Pride. Stessa grafica, stesso bianco e nero, stessa foto e stesso primo piano pensieroso, addirittura stessi dettagli che fanno pensare ad un vecchio padellone Columbia degli anni '60. E di folk-rock dylaniano tratta Pride On Pride anche se poi Tunica cover tra le 25 tracce del disco è di Phil Ochs, Chords of Fame. Steve Pride è un songwriter americano il cui album solista del 1997 Haint è stato positivamente recensito da tutta la stampa specializzata.
Questo però non è il suo nuovo disco, perché qui sono raccolte le incisioni di Steve Pride fatte all'inizio degli anni '90 con i Blood Kin ovvero il bassista Don Gerard ed il batterista Jay Bennett di Wilco. L'idea di raccogliere quei nastri in un Cd, (il materiale era stato registrato senza lo scopo di un disco) è venuta a Jay Bennett che con l'aiuto di Adam Schmitt ha assemblato ventun tracce delle session a cui aveva partecipato come Steve Pride and The Blood Kin, più due canzoni in differente versione provenienti del disco solista di Pride del '97.
Un modo per recuperare gli albori di questo cantautore che, detto per inciso, non è niente male e ha stoffa da vendere. Naturalmente dietro al trio dei Blood Kin in queste incisioni c'è uno stuolo di amici che si alterna alla batteria, dando alla band una veste più corposa e definita che mette elettricità e muscoli ad un folk-rock venato di country e radici, che risente direttamente delle passioni dell'artista, siano esse Merle Haggard o Neil Young, Dylan o Johnny Cash, in particolare Townes Van Zandt per il modo di raccontare le storie. Così, a parte qualche elementare folk-rock acustico frutto di registrazioni casalinghe a ruota libera, Pride on Pride suona vivace ed elettrico, rockato e nervoso anche quando parla il linguaggio del country e la lapsteel fa venire in mente Gram Parsons.
La cosa sorprendente è che queste canzoni e questa musica sono frutto di registrazioni e di idee di diversi anni fa, gli inizi dei novanta pressappoco, quando l'alternative country ed il root-srock che sarebbe venuto dopo erano ancora fenomeni in via di formazione, sotterranei e confinati a qualche caso isolato.
L'impressione, difatti, è di trovarsi di fronte un autore ed un performer già con una personalità spiccata che, al di là delle comprensibili ingenuità di un lavoro per lo più amatoriale senza nessuna malizia in termini di produzione, non ha nulla da invidiare a quelli che erano i pionieri del genere ovvero Jayhawks, Bottle Rockets e Uncle Tupelo.
Pur suonato con una band (i Blood Kin) Pride on pride rivela l'anima profondamente cantautorale di Steve Pride, un songwriter nel senso urbano del termine, con una vocazione di folk-rock elettrico alla Dylan ed un attenzione specifica alle canzoni e ai testi, vere short stories con un occhio a Townes Van Zandt ed un altro a Jim Thompson e Raymond Carver. Steve Pride usa frasi come "walking the darker side of the redneck, urban underbelly", raccontando storie che possono succedere a chiunque nella vasta provincia americana ma sono frutto di una fantasia non comune che si esplica in titoli suggestivi come Drugs, Guns & Cigarettes, Lap of Luxury, I Prefer The Darker Side of life, Eva Peron, Midnight Sun In a Blue Moon Town, The Devil Said, The Ghost of Mary Magdalene.
Un immaginazione fervente che si traduce in canzoni suonate con i modi ruspanti e genuini di una roots-college band che è un misto di Wilco prima maniera e Blue Mountain e cantate con quello slang da provincia che non dispiacerebbe né a James McMurtry né a Steve Earle. Pride on Pride non è certo un disco finito, è molto lungo, un po' caotico nella sequenza (c'è anche una traccia live) e risente del fatto di essere una raccolta di basement tapes ma ugualmente ha argomenti sufficienti per costituire un album vero che, sono sicuro, all'inizio degli anni '90 avrebbe fatto scalpore.
Nonostante ciò ancora oggi la freschezza e la spontaneità di queste canzoni non sono andate perdute perché l'ingegno di Pride nel maneggiare un ruvido e provinciale folk-rock di derivazione rootsy e canzoni dai testi e dalle storie significative è un patrimonio da difendere, almeno in un mondo come quello del rock d'autore americano. La speranza è quella di avere prossimamente un nuovo disco di Steve Pride con tutte le potenzialità espresse da Pride on Pride realizzate al meglio. A questo punto potremo dire che copiare le storiche copertine Columbia degli anni '60 di Dylan e Cohen non era un atto di presunzione.