JOHN DOE (Dim Stars, Bright Sky)
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  Recensione del  16/02/2005
    

Il suo momento da fuoriclasse, inutile negarlo, John Doe l'ha avuto con gli X, una rock'n'roll band straordinaria e assolutamente fuori dagli schemi. Con loro ha firmato alcune pagine intense e leggendarie, aggiungendo alla bufera inaugurata dai Ramones il legame con il passato un po' per aver avuto Ray Manzarek come produttore, un po' per l'amicizia con i migliori rappresentati della memoria storica del rock'n'roll, Dave Alvin e i Blasters. Per chi fosse arrivato ieri o volesse rispolverare le gesta degli X, l'ottima antologia Beyond & Back e le recenti ristampe dei loro classici sono più che consigliabili. Però non si può stare sulla cresta dell'onda tutta una vita ed è forse così che si spiegano le soluzioni di basso profilo adottate da Exene Cervenka e da John Doe dopo lo scioglimento della loro creatura.
Anche Dim Stars, Bright Sky, nel tentativo di confermare le posizioni raggiunte da John Doe come songwriter, non cambia molto la situazione. È un disco ben costruito ed è sicuramente tra i lavori migliori di John Doe perché torna ad esplorare i territori già visti con i Knitters e in alcune sfumature degli ultimi X, in particolare quelli di See How We Are, ma è come se gli sfuggisse il nocciolo della questione, l'urgenza necessaria, quella scintilla che c'è oppure no, e non s'inventa, nemmeno con i migliori musicisti del mondo. Per Dim Stars, Bright Sky, John Doe ne ha raccolti diversi: le chitarre di Smokey Hormel (già con Beck e Tom Waits), la batteria di Joey Waronker (idem come sopra), le tastiere di Jamie Muhoberac, la voce di Jakob Dylan (un po' in sordina, in verità) e poi Juliana Hatfield e Aimee Mann a cercare di ricreare la magia dei duetti con Exene Cervenka. In più Joe Henry (che si sta facendo un nome come produttore) che firma un sound molto asciutto, scarno, essenziale e perfetto per le ballate crepuscolari di cui è composto Dim Stars, Bright Sky.
La curva delle canzoni, però, tende al ribasso: se all'inizio le atmosfere di 7 Holes (pianoforte e chitarre acustiche su tutto) sorprendono, poi, e soprattutto nella parte finale, non sono sufficienti a dare identità a titoli (Faraway, Still You, Backroom, Employee Of The Month Always e persi no la ghost track) che sembrano ripetere lo stesso modulo. Molto meglio Magic o Forever For You, con un John Doe particolarmente ispirato e dinamiche che danno un volto alla canzone oppure This Far che torna al rock'n'roll. Un disco dignitoso a fronte di un grande passato.