WILCO (Being There)
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  Recensione del  30/01/2004
    

«Being there» è il secondo album dei Wilco. È un disco doppio, un progetto sicuramente ambizioso per qualunque band, sopratutto se arrivata solo al secondo album. Wilco sono nati dallo scioglimento, avvenuto due anni fa, degli Uncle Tupelo: Jeff Tweedy si è portata dietro tutta la band (Ken Coomer, John Stirratt, Jay Bennett e Max Johnston, che però ha lasciato dopo avere inciso questo album), con l'eccezione di Jay Ferrar, l'altra testa pensante dei Tupelos.
Il primo disco «A.M.» ci ha folgorato a tal punto che li abbiamo messi in copertina, e questo secondo lavoro, ascoltato e riascoltato numerose volte, risulta complesso ma molto interessante e segna un certo distacco dal disco precedente. Il country, così marcato nel disco dello scorso anno, non è più elemento base della musica dei ragazzi di Tweedy e «Being there» è un disco voluto e cercato fortemente da Jeff Tweedy, con la band nella parte di comprimario. I riferimenti molto forti agli anni sessanta, i Rolling Stones citati molte volte, accenni persino ai Beach Boys, ballate degne di Neil Young, echi dei Beatles: «Being there» è questo e molto di più.
Contiene diciannove canzoni, supera gli ottanta minuti, e, ascolto dopo ascolto, si scoprono di continuo nuovi motivi, arrangiamenti diversi e, perché no, innovativi. Prendiamo ad esempio «Misunderstood» il brano che apre la raccolta: è una canzone di oltre sei minuti distante anni luce dal primo disco, l'inizio è persino dissonante, con più di dieci secondi di pura cacofonia, poi la composizione si apre in una ballata pianistica per terminare poi in modo catartico con un coro (mi rammenta i Beatles nel loro periodo più sperimentale).
Subito le cose cambiano con la rilassata «Far, far away», una ballata folk rock di stampo younghiano con una steel guitar che ricama sul fondo ed un'atmosfera pastorale che ben poco ha in comune con il brano d'apertura. Tutto questo mi affascina e mi coinvolge: un disco che inizia in questo modo non ha certamente uno sviluppo risaputo e può andare a parare dovunque.
Ci sono delle ballate folk rock di chiara matrice Tupelo, brani che fanno da ponte con il passato, ma ci sono anche brani rock, brani sperimentali e, in un paio di canzoni fiati ed archi, per dare al suono uno spessore completamente diversificato. «Monday» è un rock alla Rolling Stones: batteria pressante, chitarre in evidenza, una corposa sezione fiati che entra perfettamente nel brano e che rende il tutto più plasmabile, più abbordabile. Sembra uscita di botto da un vinile delle pietre rotolanti degli anni settanta. E funziona. Ma il doppio album non era nei piani di Tweedy.
«Abbiamo iniziato a registrare ed abbiamo lavorato in sequenza: a quel punto avevamo otto canzoni. Beh, ci siamo detti, a questo punto è molto facile finire il disco: ne aggiungiamo altre quattro ed è fatta. Poi, giusto per divertirci, siamo rimasti in studio un altro paio di settimane ed abbiamo continuato ad incidere: quando ci siamo fermati avevamo registrato almeno trenta canzoni.
Così abbiamo dovuto priorizzare perché non avevamo il tempo di mixarle tutte: siamo scesi a 21 e ne abbiamo scelte, in via definitiva, 19. L'idea era di usare 14 o 15 canzoni, poi siamo giunti alla decisione di non togliere nulla e di metterle tutte nel disco. Ci sono stili completamente differenti, alcuni più riusciti di altri, ma il lavoro, nella sua entità, da l'idea di un work in progress e ci è sembrato più onesto mostrare tutti gli aspetti del nostro lavoro
».