WILCO (A.M.)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Molto attesi dalle nostri parti. Molto attesi. I Wilco sono il quartetto fuoriuscito dallo scioglimento degli Uncle Tupelo, la band di Jay Farrar e Jeff Tweedy, che tanto spazio e consensi ha trovato su queste pagine.
Se ne è andato Jay Farrar, mentre Jeff Tweedy, con il resto della band, ha preferito proseguire, cambiando però il nome al gruppo. Wilco, di cui avevamo già assaporato qualche cosa sul bellissimo «Red, Hot & Country» (eseguivano, assieme a Syd Straw, «The T.B. is whipping me») è quindi il nucleo originale dei Tupelos (compreso il produttore Brian Paulson e lo steel guitarist Lloyd Maines) che aveva inciso «Anodyne», ma senza Farrar: cioè Jeff Tweedy, Ken Coomer, John Stirratt e Max Johnston (fratello, quest'ultimo, di Michelle Shocked).
Come ben sapete, Farrar e Tweedy sono stati, da sempre, il team di autori del gruppo, l'uno compendiario all'altro: e la mancanza di Farrar si nota, soprattutto per quanto riguarda la voce, ora c'è solo Tweedy, mentre le parti chitarristiche sono sopperite con l'innesto di Brian Henneman, leader dei Bottle Rockets, mentre dal vivo la chitarra solista sarà nelle mani di Jay Bennett (ex Titanic Love Affair). Sentendo «A.M.» comprendo il distacco di Farrar: il resto del gruppo ha mantenuto quel suono, tralasciando però gli orpelli più rock, portandosi sempre più in un ambito legato alle radici.
«A.M.» è un bel lavoro e non risulta inferiore rispetto ad «Anodyne» (che, nei soli Stati Uniti, ha superato le 40.000 copie): l'ottica è la stessa anche se il suono è più sporco, più younghiano, una sorta di miscela indefinibile di rock e country-roots.
È come se il fantasma di Neil Young e l'ombra di Dan Stuart vigilassero su questi ragazzi della sperduta provincia americana: i Tupelos sono stati dei grandi precorritori ed i Wilco ne sono i diretti discendenti con le loro variazioni sui temi di Neil Young, Creedence Clearwater Revival, Gram Parsons e The Band e le trasgressioni alla Dinosaur Jr. «A.M.» è molto equilibrato e non farà certamente dispiacere a chi ama questo suono: si può mettere sulla stessa linea del recente Jayhawks oppure, ovviamente, delle vecchie cose dei Tupelos.
Chitarre elettriche e steel, violino e sezione ritmica dura, ballate con il classico passo texano e brani rock più rilassati: la formula è quella degli Uncle Tupelo e, ascolto dopo ascolto, il disco cresce sempre di più. Bisogna dare atto a Tweedy e soci che hanno scelto la via più difficile, quella di seguire le orme della vecchia band, senza sgarrare di un millimetro, senza cercare soluzioni commerciali o sonorità da classifica. Era indubbio che ci fosse un immediato paragone con il passato, ma, dato che per quattro dischi e vari anni on the road hanno sempre mostrato una assoluta onestà nei confronti del proprio pubblico, sarebbe stato assolutamente ingiusto ed illusorio cambiare di botto registro.
Un rimpianto per Jay Farrar, ottima voce e notevole penna che, sicuramente, manca alla band ma che avrà vita ancora più difficile a trovare un gruppo altrettanto valido: a meno che il buon Jay non abbia deciso di cambiare di botto le proprie intenzioni e di dare un indirizzo totalmente diverso alla propria musica. Le ultime notizie lo danno residente a New Orleans e in studio a Minneapolis con una nuova band.