TOM WAITS (Bone Machine)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Dopo un decennio a fare il cantore notturno, ma sempre nei termini di una logica musicale da cantautore, Tom Waits con l'inizio della scorsa decade ha dato una sterzata netta alla sua carriera. È stato con «Swordfishtrombones» (1982) che ha introdotto il rumore e la disarmonia nel suo modo di fare musica, e con i dischi seguenti, dal celebrato «Raindogs» (1985) a «Frank's wild years» (1987), ha continuato a fare musica per immagini.
Sembra che la sua opera, in origine molto cantautorale, oggi sia soggiogata dai giochi al massacro che hanno reso celebre Captain Beefheart e dalle melodie struggenti a prova di ugola della grande Edith Piaf. Waits ha squassato la sua musica passando dal ruolo di poeta notturno a quello di cantore sepolcrale: «Bone machine», il suo nuovo lavoro, prosegue, ed in modo ancora più rigoroso, il suo operato più recente.
Se i tre dischi di studio degli anni ottanta hanno formato una trilogia ideale a cui è seguito un album dal vivo anomalo («Big time», 1988), «Bone machine» non cambia di una virgola il contenuto e continua imperterrito a falcidiare il pentagramma. Anche «Night on earth» (1991), colonna sonora del nuovo film di Jim Jarmusch, pur nella sua essenza strumentale, faceva capire che Tom voleva continuare il suo discorso, stando ben lontano dalle dolcezze, ormai per lui inusuali, della colonna sonora scritta per Coppola più di un decennio fa («One from the earth»).
«Bone machine» è struggente ed inferiore, catartico e tombale, triste ed introverso, funereo ed oscuro: non è un album facile, né lo consigliamo a chi usualmente ascolta i propri dischi in macchina; è un lavoro tortuoso e contorto, rumorista ed amelodico, difficile da penetrare. Eppure è affascinante: le atmosfere funeree messe a contatto con la voce sempre più tenebrosa di Waits, i suoni metallici e la ritmica disordinata formano un tutt'uno difficilmente smembrabile che, ascolto dopo ascolto, penetra nel profondo della nostra recettività.
C'è una ricerca melodica, oscura e travagliante, c'è una volontà di fare musica, di creare musica, di uscire dagli schemi, di essere sé stessi; Waits dipinge i nostri tempi, non è un cantautore positivo e disincantato, usa il blues e lo stravolge, fa del gospel ma non ce ne accorgiamo, canta in modo orco, ha una voce gutturale, anche sgradevole. Ma il suo rumore è melodia, la sua interiorità è lirica, le sue ballate luciferine che parlano di morte e omicidio sono straordinarie: «Bone machine» diventa, via via che lo si ascolta, indispensabile. Miti biblici, fantasmi, scheletri, uomini malvagi, omicidi, amici perduti, pioggia notturna, temporali violenti, bambini abbandonati, atmosfere tipiche della vecchia Europa, Weill e Brecht, cabaret: il microcosmo waitsiano è sempre più tetro, e la musica agisce di conseguenza.
«Bone machine» è il suo primo album di studio dal lontano 1987, da quando «Frank 's wild years» aveva cercato di fare da colonna sonora ad una piece teatrale, e la sua visione è sempre più lugubre. La sua carriera di musicista, affiancata nella scorsa decade a quella di attore, è sempre meno frequente; poche apparizioni, ma che lasciano il segno. «Night on earth», smozzicato nella sua parte strumentale, ci aveva regalato tre splendide canzoni cantate: «Bone machine» ci toglie il miraggio di un ritorno alla normalità (che anche la collaborazione con il jazzista Teddy Edwards poteva in un certo moto palesare) e ci sbatte in faccia un autore in sincronia con il disordine dei nostri tempi.
Non segue le mode, non le ha mai seguite, non cerca il plauso, se ne è sempre fregato: Waits va in profondo, entra sempre di più in sé stesso, rifiuta il mondo esterno. Ci sono delle canzoni che hanno una melodia («That feel», «Whistlin' down the wind», «A little rain», «I don 't wanna grow up»), ma starà ad altri interpreti proporle a dovere: Tom se ne fotte anche di questo, non gliene frega un bel niente di cantare «A little rain» con voce cavernosa o di sputare parole in un brano struggente come «Whistlin' down the wind».
Lui propone e dispone a modo suo: nulla di risaputo, niente di preordinato. Note e disordine, canzoni memorizzabili che non si possono fischiettare, parole che diventano suoni, suoni che sono rumori: la sofferenza inferiore dell'autore va di pari passo con la sua tetra esposizione.Canzone dopo canzone.
«Earth died screaming» è un sogno apocalittico e rumorista. Due bassi (Larry Taylor, noto per la sua militanza nei Canned Heat, e Les Claypool dei Primus) e vari rumori. «Dirt in the ground» ha una sua struttura melodica: sofferta e struggente si dipana attraverso l'ugola straziata di Waits, il basso di Larry Taylor ed il sax oscuro di Ralph Carney. «Such a scream» è un urlo in cui il sax (ancora Carney) viene messo a confronto con una ritmica smozzicata e beefartiana, nelle mani dello stesso Waits e di Brain. «All stripped down» è una sorta di rockabilly ante litterram: la melodia viene straziata dalla voce filtrata dell 'autore, che insiste con una percussione fetida a cui fa da velo il solito Taylor al basso.
«Who are you» ci riporta alla realtà: lasciati da parte i demoni e le oscurità dell'inizio, Tom ci regala una ballata di grande effetto, cantata con voce normale e suonata in modo consono. I protagonisti sono sempre Tom e Larry, e la canzone si mette sul piano di cult songs come «Time» e «Downbound train». «The ocean doesn't want me», Tom da solo, è una poesia lubrica e dannata. «Jesus gonna be here» è un gospel anomalo: la voce è quasi normale, mentre Taylor fa dei giochi con la chitarra lasciando il basso nelle mani dell'autore.
«That feel», scritto e cantato in coppia con Keith Richards, è un grande brano; struggente e sofferto, è una parabola agra sulla vita. Il brano, che ha un incedere possente, cresce enormemente alla distanza, e il cantato finale a due voci fa pulsare il sangue nelle vene. «In the colosseum», ancora rumori in evidenza e tutti nelle mani dell'autore, è un'arringa urlata con livore nei confronti della giustizia: la sua atmosfera mitteleuropea è agghiacciante. «Going out west», Tom alla batteria, Larry al basso, Joe Gore alla chitarra, sembra un urlo sonoro di Captain Beefheart riveduto e corretto con maggiore ordine: è un brano elettrico arruffato e indurito in cui l'autore da contro alla gente che pensa (ancora) che Hollywood sia il centro del mondo.
«Murder in the red barn» è un racconto tetro che parla di un omicidio avvenuto in campagna e della velocità di come è stato dimenticato; protagonista, oltre a Tom ed al solito Taylor, il banjo sparagnino di Joe Marquez. «Black wings», contro la manipolazione delle menti da parte dei governi, è un altro «tale of sadness»: protagonista la chitarra western di Joe Gore, oltre al binomio Waits-Taylor. Composizione acida, mascherata ironicamente da una struttura sonora quasi gradevole. «Whistlin' down the wind», brano splendido ed intenso, è dedicato alla morte dell'amico Tom Jans (un cantautore di Los Angeles deceduto più di quindici anni fa). David Phillips alla pedal steel, lo stesso Waits al pianoforte e David Hidalgo (Los Lobos) al violino ed alla fisarmonica fanno da cuscino armonico alla canzone: Tom canta benissimo ed una profonda tristezza pervade i solchi del disco.
Grande brano. «I don 't wanna grow up» e la lirica «A little rain» concludono il lavoro: due brani anomali, un'amara presa di coscienza sul fatto di diventare adulti, il primo; una bella ballata dal feeling quasi irlandese, il secondo. Grande disco quindi? Certamente. Un 'opera dura e scontrosa, vibrante ed amara, in cui il nostro protagonista prende di petto la sua musica e, in compagnia della moglie Kathleen Brennan (coautrice di più della metà dei brani), ci da un quadro desolante dei tempi in cui viviamo filtrato attraverso una incredibile forza introspettiva: la sua scrittura è, letterariamente parlando, molto vicina alle atmosfere di Faulkner e di Flannery O'Connor. Poesia e musica, orrore e tristezza: Tom Waits non ha mezzi termini. Prendere o lasciare.