BRUCE SPRINGSTEEN (The Ghost of Tom Joad)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Ed ecco il disco che non ti aspetti, e proprio da Bruce Springsteen, colui che dal lontano «Nebraska» ha mostrato di avere voltato le spalle alla qualità, per darsi ad un discorso meramente commerciale. Tempo fa, recensendo il video «Unplugged» di Bruce e parlandone male, avevo però anche scritto che se Springsteen avesse fatto un disco degno della sua fama si sarebbe nuovamente guadagnato la copertina del Buscadero.
E questo mese se la è proprio guadagnata: «The ghost of Tom Joad» non solo è un bel disco, è un grande disco. Assieme a quello di Joe Ely, suo grande amico, è il disco più bello di quest'anno ed esce giusto alla fine, per conquistarsi il palmares più alto. Intendiamoci subito: «Tom Joad» non è un disco commerciale, non ha nulla di commerciale, anzi inizia dove finiva «Nebraska» passando per le strade di «Philadelphia». Infatti è un lavoro acustico, Bruce solo con la sua chitarra e, solo in qualche canzone, con un leggero supporto di tastiere e di una sezione ritmica.
Ma la sorpresa non è tanto nel fatto che il disco sia acustico, quanto nella profondità del disco stesso. «Tom Joad», che prende spunto dal personaggio omonimo, protagonista di «Furore» di John Steinbeck, autore molto amato da Bruce, è un album amaro che, al posto della grande depressione così lucidamente descritta in «Furore», da un quadro altrettanto tragico della società odierna. Bruce si dimostra acuto osservatore di «un'America dove emarginazione, xenofobia, polarizzazione della ricchezza, erosione del welfare generano egoismo, paura, disperazione e violenza» (Alessandro Portelli). I testi sono tristi, pieni di amarezza, sconsolati: parlano di perdenti, reduci, immigrati, operai. Gente senza via d'uscita, bistrattati dalla società e distrutti da un fato spesso ingiusto, fratelli che uccidono fratelli, operai che rubano il lavoro ai colleghi, homeless che urlano la propria emarginazione: la visione della società americana, della California opulenta solo per pochi, è quanto di più lucido, tragico e senza via d'uscita un musicista americano sia stato capace di descrivere da lungo tempo a questa parte.
Se «Nebraska» era un inno alla disperazione, ma anche alla solitudine, «Tom Joad» traccia un filo diretto con Bob Dylan e Woody Guthrie: il disco stesso è una apologià della figura del cantautore come cantore di fatti legati al sociale, e molti sono i punti in comune con i due grandi. Dylan viene rievocato da quella armonica lancinante, da qualche arrangiamento e dalle note di «Love minus zero no limit», Guthrie dal ripercorrere strade e luoghi già citati nelle sue canzoni, dal descrivere la ferrovia ed i lavoratori, dall'accomunare tragici perdenti a casi senza via d'uscita.
Springsteen, ormai borghese, bella villa a Los Angeles, famiglia numerosa, ricco e senza problemi, non vuole vivere sugli allori e con un disco forte e coraggioso cerca di mettere il dito sulle piaghe della sua nazione: lo fa nel modo più difficile, con un album straordinariamente intenso, andando a ripercorrere le proprie radici, cercando di uscire da queirempasse creativo che ormai lo attanagliava da almeno un decennio. Molte volte mi sono chiesto dove diavolo fosse andato a finire quel musicista che aveva fatto dischi come «Darkness» o «The river»: finalmente l'ho ritrovato, lo abbiamo ritrovato. «The ghost of Tom Joad» è un album universale, un lavoro che va oltre il semplice fattore mercantile, è un messaggio forte e vibrante della ritrovata voglia di un grande musicista di riproporsi nel modo più spoglio e sincero.
Cinquanta minuti, dodici canzoni, ballate scarne, disossate da qualunque sonorità superflua, talvolta calde e avvolgenti, ma con un'amarezza di fondo sempre latente e un filo di speranza che, in modo molto parco, si affaccia di tanto in tanto.