Ed ecco il disco che non ti aspetti, e proprio da
Bruce Springsteen, colui che dal lontano «
Nebraska» ha mostrato di avere voltato le spalle alla qualità, per darsi ad un discorso meramente commerciale. Tempo fa, recensendo il video «
Unplugged» di Bruce e parlandone male, avevo però anche scritto che se Springsteen avesse fatto un disco degno della sua fama si sarebbe nuovamente guadagnato la copertina del Buscadero.
E questo mese se la è proprio guadagnata: «
The ghost of Tom Joad» non solo è un bel disco, è un grande disco. Assieme a quello di Joe Ely, suo grande amico, è il disco più bello di quest'anno ed esce giusto alla fine, per conquistarsi il palmares più alto. Intendiamoci subito: «Tom Joad» non è un disco commerciale, non ha nulla di commerciale, anzi inizia dove finiva «
Nebraska» passando per le strade di «
Philadelphia». Infatti è un lavoro acustico, Bruce solo con la sua chitarra e, solo in qualche canzone, con un leggero supporto di tastiere e di una sezione ritmica.
Ma la sorpresa non è tanto nel fatto che il disco sia acustico, quanto nella profondità del disco stesso. «
Tom Joad», che prende spunto dal personaggio omonimo, protagonista di «Furore» di John Steinbeck, autore molto amato da Bruce, è un album amaro che, al posto della grande depressione così lucidamente descritta in «Furore», da un quadro altrettanto tragico della società odierna. Bruce si dimostra acuto osservatore di «
un'America dove emarginazione, xenofobia, polarizzazione della ricchezza, erosione del welfare generano egoismo, paura, disperazione e violenza» (Alessandro Portelli). I testi sono tristi, pieni di amarezza, sconsolati: parlano di perdenti, reduci, immigrati, operai. Gente senza via d'uscita, bistrattati dalla società e distrutti da un fato spesso ingiusto, fratelli che uccidono fratelli, operai che rubano il lavoro ai colleghi, homeless che urlano la propria emarginazione: la visione della società americana, della California opulenta solo per pochi, è quanto di più lucido, tragico e senza via d'uscita un musicista americano sia stato capace di descrivere da lungo tempo a questa parte.
Se «
Nebraska» era un inno alla disperazione, ma anche alla solitudine, «
Tom Joad» traccia un filo diretto con Bob Dylan e Woody Guthrie: il disco stesso è una apologià della figura del cantautore come cantore di fatti legati al sociale, e molti sono i punti in comune con i due grandi. Dylan viene rievocato da quella armonica lancinante, da qualche arrangiamento e dalle note di «
Love minus zero no limit», Guthrie dal ripercorrere strade e luoghi già citati nelle sue canzoni, dal descrivere la ferrovia ed i lavoratori, dall'accomunare tragici perdenti a casi senza via d'uscita.
Springsteen, ormai borghese, bella villa a Los Angeles, famiglia numerosa, ricco e senza problemi, non vuole vivere sugli allori e con un disco forte e coraggioso cerca di mettere il dito sulle piaghe della sua nazione: lo fa nel modo più difficile, con un album straordinariamente intenso, andando a ripercorrere le proprie radici, cercando di uscire da queirempasse creativo che ormai lo attanagliava da almeno un decennio. Molte volte mi sono chiesto dove diavolo fosse andato a finire quel musicista che aveva fatto dischi come «
Darkness» o «
The river»: finalmente l'ho ritrovato, lo abbiamo ritrovato. «
The ghost of Tom Joad» è un album universale, un lavoro che va oltre il semplice fattore mercantile, è un messaggio forte e vibrante della ritrovata voglia di un grande musicista di riproporsi nel modo più spoglio e sincero.
Cinquanta minuti, dodici canzoni, ballate scarne, disossate da qualunque sonorità superflua, talvolta calde e avvolgenti, ma con un'amarezza di fondo sempre latente e un filo di speranza che, in modo molto parco, si affaccia di tanto in tanto.