Due dischi di successo,
Trace (200.000 copie per un esordio fulminante) e l'eccellente
Straightaways (100.000 copie) meglio del primo e quindi meno venduto, e la pesante eredità degli
Uncle Tupelo non sono un fardello a poco. Ma
Jay Farrar, trentuno anni, gran voce e compositore di indubbio spessore, non è certo uno che si prostra di fronte alle difficoltà. Ha accettato di buon grado la divisione dal suo vecchio pard nei Tupelos
Jeff Tweedy ed ha iniziato una carriera solista senza clamori. Jay parla poco (l'ho intervistato lo scorso anno: è uno che pesa le parole), ma fa i fatti: si potrebbe pensare che non ha niente da dire, ma lui invece si fa capire attraverso la sua musica.
Straightaways ha venduto la metà del disco d'esordio ma non ha certo sconfortato la band (centomila copie non sono poi bruscolini) ed ora, al terzo album, c'è la voglia di cambiare qualche cosa. Il suono si fa più duro, le chitarre più aspre, ma la musica rimane sempre profondamente legata alle radici di Jay, alla sua terra. Lui è di St. Louis e, per registrare questo disco si è spostato di pochi chilometri da casa . È andato in una vecchia fattoria a Millstadt, Illinois, e, nella pace della campagna, ha gettato le basi per la sua terza opera.
Il fatto di registrare in uno studio fuori mano, senza condizionamenti di sorta, ha permesso alla band di guardare maggiormente alla composizione, di essere più rilassata, di trovare nuovi sbocchi alla propria musica. Il disco è prodotto questa volta dalla band, e, tra i musicisti che aiutano il quartetto (
Jay Farrar, Jim Boquist, Dave Boquist e Mike Heidorn) troviamo l'ex Sugar
Dave Barbe ed
Eric Heywood (pedal steel in due brani). Dietro alla consolle, per dare più corpo ai suoni, troviamo Jack Joseph Puig (Black Crowes, e Goo Goo Dolls), lo stesso Barbe e John Agnello (Dinosaur Jr).
Wide Swing Tremolo inizia con la dura
Straightface, con chitarre distorte, una canzone abbastanza fuorviante nella parte iniziale che poi si muta in una dura ballata di aspro sapore rurale. Tutto torna la suo posto con il folk rock indurito
Driving the View, dove esce allo scoperto la vena di autore del nostro: chitarre aperte ed una bella melodia di fondo, il sapore delle radici ed un tocco di americana che non guasta. Si tratta anche del singolo che i ragazzi mandano subito via radio. Un'armonica lancinante introduce la breve
Jodel, strumentale.
Medicine Hat poi è un folk rock di grande spessore, con le chitarre che mantengono un riff energico e dolce al tempo stesso, e le voci che si rincorrono: tempo veloce e linea melodica avvolgente.
Strands è un viaggio a ritroso nel tempo: lenta ed intrigante, sembra una outtake di uno dei primi album degli
Uncle Tupelo, con la voce tipica di Farrar a dominare una ballata introspettiva, arsa dal sole, ma che entra in profondo e lascia il segno.
Flow ha un attacco chitarristico ed un piglio fiero, non si eleva, ma si ascolta con piacere.
Ben diversa è la seguente
Dead Man Clothes: inizio strumentale quasi stonato e voce fuori centro. La ballata è lenta, introversa, strana, ipnotica. Si percepisce che Farrar cerca nuovi sbocchi alla sua musica. Meglio
Right On Throught dall'inizio quasi stonesiano, con la voce tipica ed un taglio roots di pura marca americana, con le chitarre aperte e la ritmica ossessiva.
Chanty è uno strumentale acustico, molto evocativo, la chitarra cresce e la linea melodica prende corpo lentamente.
Carry You Down ha una melodia che rieccheggia vecchie canzoni.
Lo script è legato alle radici di Jay, agli ascolti prolungati su vecchi vinili scricchiolanti di artisti country blues, con quel che di nostalgico ed interiore che solo gli scrittori di vaglia riescono ad inserire nelle proprie composizioni.
Question è potente, chitarristica, tupeloiana. Niente di nuovo, ma una boccata d'aria fresca.
Streets That Time Walks non cambia di molto il cliché del disco e si mantiene su binari classici: si tratta di una ballad lenta, introspettiva, in cui la parte principale viene sostenuta dalla voce narrante del leader. Chiudono il disco
Hanging Blue Side una composizione dal tempo mosso, con un violino sul fondo ed un tempo dichiaratamente country e
Blind Hope, abbastanza atipica, ma decisamente interessante.
Dal punto di vista delle liriche il reticente Farrar rimane volutamente opaco e distaccato: la sua visuale della vita è personale, ma secondo angolazioni mai dirette. Il batterista poi, Mike Heidorn, ha aumentato il suo volume di suono al punto che spesso Jay deve seguire le sue direttive: una sorta di particolare dualismo. Jay Farrar e i
Son Volt sono la punta di diamante della scena roots alternativa: la vitalità del movimento roots/americana si ritrova appieno nella musica di Farrar e soci, grazie anche ad una robusta dose di vitalità ed iniezioni notevoli di energia pura.