JASON REED & DON REINEKE (Only a Hobo, a Tribute to Carlo Carlini)
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  Recensione del  15/01/2005
    

Jason Reed ha trovato un angolo d'America proprio nel nostro paese: dalle pagine di questa rivista abbiamo imparato a conoscere il suo fiero rock provinciale, una via di mezzo tra il piglio proletario di John Mellencamp e il country-rock ribelle di Steve Earle. Grazie al successo indipendente dei suoi lavori solisti, l'ultimo dei quali, l'interessante Smithville, rappresenta forse il suo punto d'arrivo, Jason è riuscito a percorrere diverse volte le strade italiane, in numerosi tour susseguitisi in questi anni. Al suo fianco l'organizzatore Carlo Carlini, che molti lettori conosceranno per l'impegno profuso nel far conoscere al pubblico di casa i migliori talenti della canzone americana. Un'amicizia nata on the road, come si dice, che a partire dal 1996 è arrivata ai giorni nostri.
Only a Hobo, A Tribute to Carlo Carlini è un omaggio speciale fatto da un amico prima che da un musicista. Raccolto il desiderio di Carlo di vedere pubblicata una raccolta che contenesse alcune delle sue canzoni preferite, Jason si è messo d'impegno per realizzare concretamente il progetto con l'apporto del collega Don Reineke (chitarre, basso, dobro, mandolino e seconda voce) e il resto della band, chiusi negli studi Rockin' D Ranch dell'Iowa. Il risultato è un disco di cover di onesta fattura, in bilico tra canzone d'autore, country fuorilegge e profumi roots rock, in linea con i gusti del protagonista.
La scelta del repertorio è caduta su autori di prima grandezza, sia della vecchia guardia, sia del nuovo fermento provinciale, con l'eccezione dell'inedita Song for Bruno, dedicata ad un compagno scomparso, che per anni ha legato il suo nome al locale Spazio Musica di Pavia. Troviamo una accanto all'altra song immortali della tradizione texana come Desperados Waiting For A Train di Guy Clark e Amarillo Highway di Terry Allen, e nuovi inni dell'alternative-country come Tear Stained Eye dei Son Volt.
L'approccio di Reed è come sempre molto informale: la produzione non è mai stata il punto forte dei suoi dischi, ma il suono ruspante della band sopperisce ai difetti tecnici con tanto cuore. Riesce ad interpretare molto bene la parte quando è chiamato a rivedere le sue fonti di ispirazione più dirette: lo Steve Earle di Copperhead Road o il James McMurtry di Levelland, brano sempre splendido. Mostra invece qualche cedimento nei confronti di mostri sacri come Bob Dylan (Forever Young) o John Prine (Angel from Montgomery): la sua grinta da rocker operaio è probabilmente più adatta al tiro elettrico e spavaldo di The Ballad of Ira Hayes (Peter La Farge) che non alle sottigliezze del folk rock. Tutto sommato un prodotto genuino che potrebbe suggerire ai nuovi arrivati la conoscenza degli originali.