Sono tornati. Dopo due anni di dischi dal vivo, per lo più belli, di dischi solisti per lo più insignificanti, i
Phish ripartono da dove avevano smesso. Da un grande disco. Se
Farmhouse era stato definito uno dei dischi migliori della band, e lasciava non poco rimpianto visto che pareva essere l'ultimo,
Round Room toglie qualunque dubbio sullo stato di salute del quartetto del Vermont.
Trey Anastasio è in grande forma sia come autore che come musicista,
Page Mc Connell torna a riempire l'etere di liquide note con il suo magico pianoforte mentre
Mike Gordon e Fishman fanno quello che devono fare nel migliore dei modi.
Round Room è un signor disco, un grande disco. Niente di cerebrale, solo una manciata di canzoni, qualche jam molto piacevole, ma soprattutto canzoni. Canzoni in alcuni casi superbe, come la lunga
Walls of the Cave, probabilmente il capolavoro del disco, oppure l'iniziale
Pebbles and Marbles che inizia come una ballata e si trasforma in una jam libera dalla struttura sontuosa. Gli strumenti si mischiano e macinano suoni, il piano diventa protagonista e la chitarra lancia strali di rara intensità. Sì, i
Phish sono tornati e al meglio della forma. Anche l'uscita del disco, il 10 Dicembre, conferma la noncuranza che il gruppo ha delle leggi di mercato.
Tutte le stars, ma anche i minori hanno speso le proprie cartucce in attesa delle festività natalizie, mentre i quattro del Vermont irrompono sul mercato quando i giochi sono fatti, infischiandosene di promozione e marketing. La produzione è dell'esperto Bryce Goggin, che funge anche da ingegnere del suono e tecnico del missaggio: Goggin è uno che lascia lavorare la band, trae il meglio dal meglio, non forza mai. Ed i risultati sono palpabili, come già nel caso di
Farmhouse.
Pebbles and Marbles (11.39) è una straripante jam che parte come una ballata suadente e si sviluppa in un intricato gioco strumentale, crescendo nota dopo nota ed avvolgendo l'ascoltatore in un suono di rara espressione.
Una tipica Phish jam che però ha una costante base melodica.
Anything But Me è una composizione lineare, in cui voce e piano sono i punti di riferimento, mentre la chitarra tratteggia melodie semplici e decisamente gradevoli.
Round Room ha una atmosfera solare, quasi alla Jimmy Buffett, un gioco strumentale allegro e disincantato ed una fluidità che va di pari passo con una innata semplicità. Come la seguente
Mexican Cousin che è una canzone molto semplice, con vaghe influenze country ed un ritornello che cattura all'istante. Forse non piacerà a chi cerca stranezze, ma invece a chi ama la musica, le belle canzoni ed i suoni puliti e diretti. L'assolo centrale di chitarra è da manuale.
The Story of the Ghost appare lontano, ormai dimenticato.
Friday è addirittura cantautorale: un gradino sotto alle precedenti, mantiene comunque una buona linea melodica, anche se non ha particolari qualità. Molto meglio la jam quasi strumentale
Seven Below (8.30) che lascia fuoriuscire una ricerca notevole sulla scala armonica e sull'uso dei vari strumenti: voci sussurrate che lasciano ampio spazio ad una chitarra lirica, ad una ritmica ordinata, ed al piano che spazia di continuo improvvisando con gli altri strumenti.
Il finale è tagliato di botto, come se qualcuno avesse strappato il nastro.
Mock Song, scritta da Gordon (ma gran parte del disco deriva dalla penna di Anastasio e del suo partner Marshall, una sorta di binomio alla Garcia Hunter) è una canzone semplice, che si basa su una strumentazione limpida.
46 Days è intricata, supera i sei minuti, e sviluppa una tematica diversa rispetto ai brani che la hanno preceduta. Una canzone di stampo più rock, dal tessuto robusto che però risulta secondaria. Ma ci pensa la splendida
All of These Dreams a riequilibrare le sorti del disco. Una di quelle ballate di grande spessore, dalla melodia intrigante, per cui Trey va giustamente fiero.
Una vera canzone che ha nei suoi cromosomi il suono Americana e la conoscenza perfetta del pentagramma: sicuramente la ballata più significativa del disco. La lunga
Walls of these Dreams (9.59) è il punto più alto del disco dove sperimentazione, melodia e strumenti raggiungono l'apice creativo. L'introduzione di piano è maestosa, poi la band entra in circolo e la canzone prende corpo: una danza strumentale di grande presa a cui la voce di Trey da il giusto equilibrio, mentre gli strumenti si sovrappongono e si mischiano in una danza splendida.
Un brano da sentire e risentire a lungo, molto a lungo.
Thunderhead è una tipica canzone di passaggio, una bridge song che lascia spazio ad una ulteriore jam di grande valore,
Waves. Inizia con le onde questa danza che si protrae oltre gli undici minuti, con la band che parte con un tempo quasi jazzato, gli strumenti che se ne vanno diretti e la canzone che appare lentamente e sboccia in una finale strumentale che avvolge l'ascoltatore in una spirale sonora affascinante. 78 minuti di grande, in alcuni casi grandissima, musica.
Phish are back!