PHISH (Farmhouse)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Prima di parlare del nuovo album della quartetto del Vermont, vorrei fare il punto della situazione. I Phish, cioè Trey Anastasio, Mike Gordon, Page McConnell e Jon Fishman, sono assieme dal 1985 (la band ha iniziato nel 1983, ma questa formazione si è trovata due anni dopo) ed in quindici anni di vita on the road hanno venduto quasi cinque milioni dischi e, solo lo scorso anno, hanno eseguito 60 concerti in Usa, vendendo più di un milione di biglietti e totalizzando quaranta milioni di dollari. Un successo formidabile, nato dal nulla e creatosi senza l'aiuto dei media.
I Phish sono un fenomeno interessante da analizzare. Sono una delle band di maggiore successo degli ultimi dieci anni, fanno rock, improvvisano, ed hanno ereditato, anche se la musica non è la stessa, lo scettro o, almeno, la filosofia dei Grateful Dead. Ma il loro successo, avvenuto gradualmente, non è accaduto per via dell'esposizione delle stazioni radio, né grazie ai video od a MTV, neppure grazie all'interessamento dei media, stampa inclusa.
Insomma un successo nato dal passaparola, dall'interesse della gente, un successo cresciuto a vista d'occhio sino a diventare smisurato. Lo stesso si può dire per la Dave Matthews Band che però, al contrario dei Phish, fa della musica più commerciale. I Phish hanno suonato di continuo, senza mai fermarsi, un pò come i Grateful Dead, ed hanno trovato un pubblico assolutamente fedele che li ha seguiti (e li segue) in tutta America ed in giro per il mondo.
A parte il live act, gran parte del successo dei Phish si deve al passaparola avvenuto via Internet: un gruppo di fans che cresce giorno per giorno (ora la band conta quasi duecento siti dedicati) e che si aggira su milioni di visite alla settimana. Insomma i Phish si sono creati un proprio pubblico ed una propria immagine stando completamente al di fuori dei canoni classici dello show biz: hanno aggirato l'ostacolo di una stampa ignorante e della stupidità delle radio, lavorando alacremente e spargendo la propria immagine via Internet.
Il concerto di Capodanno del '99 ha attirato 75.000 spettatori: la folla maggiore dell'anno, per un unico concerto. Farmhouse arriva qualche mese dopo l'autocelebrazione del vivo avvenuta col sestuplo Hampton Comes Alive. Se quel disco multiplo dal vivo è stata l'estrema celebrazione di una band che non ha confini quando è sul palco, che sa passare da un genere all'altro con la più assoluta scioltezza, che suona per divertirsi e che diverte suonando, Farmhouse segna il ritorno alla forma canzone, che il gruppo sembrava avere abbandonato dopo l'ottimo Billy Breathes.
Ma, al contrario di quel disco, Farmhouse non è una sequenza di canzoni e basta, bensì un album aperto a diverse soluzioni, dalla ballata al brano jazzato, dalla digressione strumentale alla composizione acustica. Ma, a monte di tutto, è un disco rilassato e più riuscito dell'ultimo lavoro in studio, il contorto e parzialmente deludente Story of The Ghost. Non è un disco lungo, cinquanta minuti, ma la misura è esatta e le canzoni soddisfano pienamente, grazie allo spessore compositivo che Trey e soci hanno raggiunto ed all'impareggiabile fluidità strumentale che, da sempre, è il marchio di fabbrica del quartetto. Inciso in una fattoria nella campagna del Vermont, la Farmhouse del titolo, una vecchia costruzione (ha più di 150 anni) dove Trey ha edificato il suo studio di registrazione, l'album mostra una rilassatezza ed una raggiunta maturità notevoli.
È un album di canzoni, ma anche un lavoro positivo dal punto di vista interiore, dove la spiritualità del quartetto raggiunge la vetta: infatti la pace dello studio costruito in mezzo alla campagna ha dato una tranquillità interiore al gruppo, che i Phish non avevano mai raggiunto in studio. E questo stato di cose si riflette sulle canzoni, sulla pacificante musicalità che pervade ogni brano, dove la fluidità dei suoni va di pari passo con la ricerca continua di invezioni melodiche. Farmhouse è il disco meno sorprendente del gruppo, non ci sono bizzarrie, ma più composito, quadrato e compiuto: dopo averlo sentito almeno una trentina di volte lo giudico come il migliore della produzione in studio, superiore anche a dischi di grande valore come Junta, A Picture of Nectar, Rift e Billy Breathes, giudicati sino ad oggi i migliori della band. Apre la calda Farmhouse, una ballata pastorale (che già avevamo ascoltato sul sestuplo di Hampton) che entra in circuito sin dal primo ascolto.
La melodia intensa, la chitarra densa, la ritmica calda, il piano discorsivo fanno di questa canzone, che vive su un gioco di voci splendido, una delle composizioni migliori di Trey e soci. La raggiunta pace si percepisce immediatamente: l'esecuzione è precisa e limpida, la chitarra si staglia nello spazio, le voci si inseguono. Twist, pure questa già conosciuta, inizia come un pezzo di Ghost ma poi si apre subito ad una sonorità intensa, con la voce in bella evidenza ed il piano di McConnell dietro le spalle a dialogare e sputare note: una ballata giocata ancora sulle voci, meno interiore della precedente, ma piena di suoni, di idee, di improvvisazione, che, nella versione dal vivo vengono ovviamente dilatate. Bug è dolce, melodiosa, flebile: inizio quieto, con la sezione ritmica docile e la voce quasi dialogativa.
Poi, come accade spesso nelle composizioni del gruppo, la canzone si apre lentamente lasciando uscire la melodia che gioca le sue carte su una vocalità fresca e su una strumentazione parca che, dopo quasi due minuti, prende corpo e si apre completamente ad un suono più energico. Back on The Train è allegra, veloce, semplice: un rock 'n' roll senza pretese, ma fresco e godibile, scritto e suonato con il ritmo del treno in testa. Heavy Things è tra le composizioni più riuscite del disco.
Un tempo fluido, una melodia splendida, un gioco di voci ben costruito, con sonorità folk rock mischiate ad una ovvia predispozione alla jam: il piano di Page spunta dietro alla voce e la canzone si sviluppa seguendo temi classici per la band di Burlington; Gotta Jiboo è esuberante, creativa, piena di idee e mischia una melodia di classico stampo phishiano a sonorità jazzate: un incrocio di suoni ed idee, dove una sezione fiati ben si adatta alle evoluzioni della voce e degli strumenti. Din è molto intrigante: la voce sommessa, l'orchestrazione fluida, danno un sapore tipico alla ballata. C'è la creatività di Trey in questo brano, costruito in modo classico, con gli archi che regalano momenti cameristici ed un gioco di voci degno della miglior tradizione cantautorale.
Anche Piper l'abbiamo già ascoltata: intro tipico, ricercato e quasi sperimentale, poi gli strumenti prendono il proprio posto e la melodia ha una sua collocazione ben precisa. La canzone si sviluppa velocemente, mentre chitarre e pianforte intessono un fitto dialogo, le voci entrano a loro volta sovrapponendosi in modo gioioso, creando un continuo crescendo. Sleep è una canzoncina acustica, in cui la voce e la chitarra ben si compendiano: un brano che conferma l'eclettismo della band e l'alta qualità delle canzoni che compogono Farmhouse. The Inlaw Josey Wales (dedicata ad un noto film di Clint Eastwood: The Outlaw Josey Wales, in Italia "Il Texano dagli Occhi di Ghiaccio") è una delle gemme della raccolta.
Si tratta di uno strumentale di estrazione folk in cui l'acustica di Trey ed il piano di Page si confrontano con il banjo di Bela Fleck ed il dobro di Jerry Douglass. La breve Sanò ci riporta brevemente a Ghost, per un intro prepotentemente funky, un heavy space funk, con la voce sottotono, mentre la sezione ritmica domina: è il brano meno appariscente del disco, ma ha un suo fascino, grazie alla pienezza del suono.
Chiude il lungo strumentale (sette minuti) First Tube. Si tratta di una travolgente cavalcata in cui chitarre e piano si divincolano dagli schemi canonici e si sbizzariscono a creare suoni e melodie, cercandosi e lasciandosi di continuo. Dopo un'intro diretto e molto ritmato, la canzone si apre ad una linea melodia fluida in cui traspare decisamente la facilità alla jam del quartetto e l'assoluta padronaza degli strumenti. Un disco fresco che mostra la salute di cui gode la band e la voglia di fare ancora grande musica, fuori da ogni schema, in completa antitesi con il mercato attuale. Una band unica.