PHISH (A Live On)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Due CD, centoquaranta minuti di musica, sette canzoni nuove su dodici e nessun brano tratto dagli ultimi due lavori («Rift» ed «Hoist»). I Phish di Trey Anastasio, gloria del Vermont, non solo sono la migliore band venuta alla luce in Usa nell'ultimo quinquennio, ma anche una delle più popolari in assoluto e, probabilmente, la più imitata del momento. Creativi, eclettici, iconoclasti, personali, bravi nell'improvvisare e nel costruire sempre nuove sonorità, i Phish hanno trovato il successo con una formula molto semplice: suonano quello che preferiscono, non sono soggetti ad alcuno schema o corrente, non fanno mai un concerto simile al precedente.
Sono in quattro fin dagli inizi, hanno esordito a metà anni ottanta, ed hanno inciso sei album compreso questo live (sette con il disco anomalo con il compagno di scuola The Dude of Life): si sono creati un seguito di pubblico fortissimo, quasi maniacale (un po' come i Grateful Dead, da cui hanno indubbiamente appreso la filosofia dell'improvvisazione), con gente che li segue data per data, scambi di nastri anche via internet, migliaia di ore registrate e già una cinquantina di bootleg disponibili sul mercato internazionale. Trey Anastasio, chitarra e voce, Page McConnell, piano e voce (pianista fantastico), Mike Gordon, basso e voce, ed il bizzarro Jonathan «Tubbs» Fishman, batteria: questi i nomi dei quattro Phish.
Su queste pagine non hanno certo bisogno di presentazione, li abbiamo descritti ed intervistati già varie volte, ma, con l'uscita di questo disco dal vivo, peraltro splendido, penso che il gruppo sia giunto al suo apice creativo. Solo dodici brani, centoquaranta minuti di musica, una filosofia tipica di gente come Grateful Dead o Allman Borthers, con la creatività e l'inventiva che vanno di pari passo con la perfetta preparazione dei musicisti e la voglia continua di improvvisare: brani quali «You enjoy myself», più di venti minuti, o «Tweezer», superiore ai trenta, sono la definitiva consacrazione della assoluta naturalezza di questo gruppo nell'affrontare le proprie idee e nell'esporle, nel modo più semplice possibile, al proprio pubblico.
Melodie immediatamente recepibili vengono fuse con lunghi passaggi strumentali in cui confluiscono tutte le influenze della band e nei quali, una volta per tutte, viene palesata la splendida preparazione dei musicisti, sempre a proprio agio in qualunque situazione,in qualunque fraseggio, sia nelle melodie più avvolgenti che nei momenti più duri e vigorosi, con gli strumenti che volano, ben sostenuti dalla ritmica possente che lascia sempre gli spazi a piano e chitarra per inventare, creare, costruire, cucire, chiudere ed aprire.
Un cenno a parte si meritano le voci: usate in modo molto particolare, con sonorità a cappella, oppure corali, oppure strambe e bizzarre (quasi fosse un omaggio a Spike Jones). «Phish Live» è un tourbillon di suoni e colori, con gli strumenti che se ne vanno per la tangente e le canzoni che, talvolta, fanno capolino in mezzo a tortuosi assoli e lunghe pause strumentali: eppure, sentito e risentito, il disco funziona che è una meraviglia e, una volta terminato, viene la voglia di rimetterlo sul piatto un'altra volta.
Posseggo almeno una trentina di nastri dal vivo della band, sparsi dal '90 al '94, ma debbo ammettere che questo disco li supera tutti in gran lunga: prima di tutto non ci sono covers (e nel reinterpretare i Phish sono dei maestri: pensate che esiste un video bootleg, ma anche diversi tapes, chiamati «White album», in cui la band rifà, dalla prima all'ultima nota ed in un solo concerto, il «White album» dei Beatles), quindi ci sono sette nuove composizioni (sarebbe stato più facile dormire sugli allori) e, buon ultimo, non ci sono canzoni dai lavori più recenti.
L'album inizia con «Bouncing around the room» («Lawn boy») accolta da un boato del pubblico: le voci ben calibrate aprono il motivo, tipicamente phishiano, con il piano di McConnell che detta la melodia. Deliziosa. «Stash» («A picture of Nectar»), più di dodici minuti, viene iniziata da un lungo intro strumentale con le voci che entrano in gioco dopo oltre due minuti per lasciare poi ampio spazio a chitarra e pianoforte di divagare in modo eclettico e brillante: tempi e controtempi, stop e riprese, con il pubblico che segue attentissimo e che, molto spesso, si lascia andare a scrosciamenti applausi di incitamento, oppure segue con maniacale attenzione i cambi di tempo e ritmo.