PHISH (Rift)
Discografia border=parole del Pelle

     

  Recensione del  30/01/2004
    

Negli ultimi due anni è girato per gli USA un package tour chiamato H.O.R.D.E. (Horizons of rock developing everywhere) che riunisce cinque band, autonominatesi neo-hippyes, tutte figlie della stessa filosofia che ha sempre mosso i Grateful Dead. Le cinque bands - Col. Bruce Hampton and the Aquarium Rescue, Widespread Panic, Spin Doctors, Blues Traveler e Phish - sono delle bar bands che hanno ampliato il proprio repertorio mischiando rock e funk, folk e jazz, classico e blues: il tutto unito da una forte tendenza alla jam session, con gli strumenti che se ne vanno in tutte le direzioni, mentre stili apparentemente opposti si mischiano alla perfezione.
Musica come invenzione, musica creativa: le due band più appariscenti del package, lasciando da parte gli ormai celebri Spin Doctors (più di un milione di copie, solo in Usa, di «Pocket full of kryptonite», mentre il loro disco più bello rimane «Homebelly groove... live»), sono i Blues Traveler ed i Phish. I Blues Traveler sono un combo che si rifa a John Mayall ed ai Dead e che ha in John Popper, oltre che il leader, un armonicista fuori dalla norma. I Phish sono un caso a sé stante. Hanno già tre dischi al loro attivo e sono sulla strada da quasi dieci anni: la loro musica, decisamente poco etichettabile, è un collage stimolante di rock e country, jazz e classica, con influenze che vanno dai Grateful Dead ai Genesis (periodo Gabriel). Devo fare il mea culpa per averli scoperti tardi, sono una band formidabile con idee da vendere ed un sound personalissimo. La jam session sta alla base del loro suono, i cambi di ritmo sono all'ordine del giorno, i cambi di stile sono una prassi normalissima.
Non ci sono strumenti strani, i Phish sono in quattro (Troy Anastasio, voce e chitarra, Jonathan «Tubbs» Fishman, batteria, Mick Gordon, basso, Page McConnell, tastiere e voce), ma riescono a cavare dal loro cilindro una gamma di suoni incredibile. Le voci si incontrano di continuo mentre le tastiere si attorcigliano attorno alla chitarra che lancia strali sonori nel perfetto alveo che basso e batteria (totalmente figli dei Dead questi ultimi) hanno creato con estrema meticolosità. Ma, e qui sta il fatto più importante, non assomigliano a nulla: il suono dei Phish è innovativo al cento per cento, parte dalle radici più ovvie (country, molto, e blues, in parte minore) e sfocia in una serie di improvvisazioni, a cavallo tra la pura jam rock e certe accelerazioni jazz.
Hanno fatto tre dischi: «Lawn boy» (Absolute Au Go Go Records, 1990, ristampato dalla Elektra nel 1992), il valido «A picture of Nectar» del 1992, e questo eccellente «Rift», uscito lo scorso febbraio. «Rift» dura settanta minuti ma, credetemi, scorre via che è un piacere tra chitarre liquide, tastiere fluorescenti e percussioni avvolgenti. Un tourbillon sonoro difficilmente dimenticabile! Scorrendo un po' di stampa americana scopriamo che i Phish facevano già il tutto esaurito alla fine degli anni ottanta, quando erano senza contratto discografico e non avevano un manager né una booking agency che controllasse i loro concerti. I Phish, originari del Vermont, hanno cominciato come bar band, hanno proseguito come cover band e si sono affermati grazie al proprio credo in una musica estremamente seria che mischia, con assoluta semplicità, improvvisazioni jazz, intrusioni nella musica classica, reminiscenze di Dead e Genesis, una personale rivisitazione della musica country ed una decisa predisposizione all'invenzione pura.