Cosa staremmo facendo oggi se esistessero ancora Elvis, Beatles, Beach Boys, Creedence, Doors? Non ho dubbi: staremmo ascoltando questo disco di
Tom Petty! Ma lasciatemi raccontare la storia dal principio. Ci sono artisti che escono con un buon (a volte ottimo) album d'esordio, un discreto secondo disco e poi si perdono nel nulla, nell'incapacità di continuare a creare e ancora meno di inventare. Ma a volte, molto raramente, ne nasce qualcuno (forse concepito in una notte di luna piena) a cui realmente l'aggettivo "artista" non va stretto.
Uno di questi ragazzi è
Tom Petty, mezzo sangue della Florida, che ha esordito quindici anni fa (anno di grazia 1976) con un album meraviglioso (
Tom Petty and The Heartbreakers, ristampato insieme al secondo disco
You 're Gonna Get It proprio in questi giorni per la MCA/Gone Gator) ricco di promesse. Tutte mantenute, visto che oggi è uno dei rocker più importanti della larga America, al punto di farsi carico da solo (o meglio, con i suoi pistoleri: gli
Heartbreakers, Lynne e i Wilburys) d'inventare una musica colorata nel grigiore di questa fottuta era del consumismo. Non è un caso che Petty abbia sempre venduto moltissimo anche in questi anni dedicati alla musica da discoteca: la gente non può sempre essere sorda alle emozioni dell'anima.
Tom Petty non è solo un grande talento naturale, uno di quelli capaci d'imbracciare una chitarra e di scrivere hit, è anche un artista di cervello, un battitore di piste, un pioniere.
Fin dal primo album ha versato "sangue, sudore e lacrime" nello sforzo di coniugare lo spirito del rock e la bellezza della canzone pop con la ricerca di un suono nuovo, personale, in evoluzione, che potesse far ascoltare una sua canzone e dire " è alla Tom Petty" come si dice alla Beatles, alla Byrds, alla Beach Boys. Questo cammino sofferto lo ha portato negli anni a tappe non facili e mai scontate (a volte anche imperfette) come quando ha ricreato un nuovo suono californiano con
Damn The Torpedoes (1979)o con la ricerca di un ponte fra il nuovo rock rurale e le tradizioni con
Hard Promises.
Nel momento più nero si è trovato con il sofferto Southern Accenta: tre anni di preparazione per affrescare un'America rurale in rock, i cui disparati ingredienti hanno tuttavia rifiutato di amalgamarsi, in un cocktail dove dolcissimi rock classici (
Rebels, Dogs On The Run, Southern Accents) non vogliono saperne di mischiarsi al pop acido del co-produttore David Stewart, creando un ibrido che, per quanto profondamente sincero e bello, non ha saputo incontrare i favori né del pubblico né della critica, portando gli Heartbreakers alle porte dello scioglimento al compimento del decimo anno di carriera.
Nel 1987 esce
Let Me Up, il disco degli
Heartbreakers più ricco di entusiasmo dai tempi degli esordi; Petty, Campbell (il chitarrista) e Benmont Tench (il tastierista) si ritrovano a suonare ospiti in una infinità di dischi di altri artisti, praticamente tutti quelli venuti fuori dal west degli States. Doveva essere però l'incontro tra Tom Petty e Lynne a gettare le basi per l'invenzione dell'attuale suono del nostro uomo. La storia è stata raccontata infinite volte: Petty, Lynne, Dylan, Harrison e il rock & roller Roy Orbison, che hanno messo assieme, quasi per gioco, sicuramente per divertimento, questo super gruppo, con i nomi fittizi di fratelli Wilburys si sono ritrovati ad aver messo assieme anche un suono nuovo, figlio delle canzoni degli anni '60 e dell'esperienza degli '80, con melodie ed arrangiamenti come non si sentivano dai bei tempi dei gruppi vocali alla Beatles.
L'esperienza di lavorare con i talenti del rock and roll, del beat, dei sixties, e la fantasia visionaria di un produttore creativo come Lynne hanno fornito a Petty l'elemento mancante, la pietra filosofale di cui era andato alla ricerca, se è vero come è vero che i suoi ultimi due dischi,
Full Moon Fever e questo
Into The Great Wide Open sono i passi migliori tra tutti i dischi citati. Due anni fa mi ero sbilanciato al punto di paragonare
Full Moon Fever a Sgt Pepper dei Beatles. Non credo sbagliassi: l'album da una parte compiva il notevole sforzo di reinventare un rock deragliato su binari morti, dall'altra conteneva canzoni bellissime, ascoltare
Free Fallin' per credere.
Into The Great Wide open non è da meno: è beat, ingle jangle, rock & roll, bello appunto come un disco dei Beatles. Troppo bello per essere vero, come recita una delle dodici canzoni. Canzoni che sembrano venir fuori da un universo parallelo, un mondo dove gli anni '60 hanno dato i frutti giusti, un mondo che esiste solo nei colori caldi dei film di Coppola e nelle "vecchie canzoni", dove si viaggia in una Cadillac scoperta, con un programma di Howlin Wolf alla radio e la donna che amiamo al fianco (..fantascienza!).