Periodo musicalmente fertile per i nativi americani. Dopo John Trudell e Robbie Robertson, un altro pellerossa batte le praterie blue cantando con medesimo vigore e bellezza un mondo la cui simbologia sembra creata apposta per il linguaggio e le visioni del rock.
Bill Miller non ha né il carisma né la rabbia di Trudell, le sue composizioni sono semplicemente delle canzoni ma riescono lo stesso con intensità ad evocare un mondo ancestrale in cui dignità umana e rispetto della natura sono la base della convivenza.
Raven In The Snow, il suo secondo disco dopo
The Red Road, è pieno di riferimenti alla ciclicità cosmologica e al mondo naturale: corvi nella neve, fiumi, foreste, tempeste, aquile, pietre, sole e uccelli sono elementi che ricorrono abbondanti nei titoli e nei testi del disco e sono esempio di come le descrizioni, i simboli e le visioni della cultura indiana siano coerenti con una musica come il rock aperta alla contaminazione tra suono, parola e immagine.
Meno esploratore di John Trudell,
Bill Miller cerca la propria identità in quel rock che sa coniugare song-writing e chitarre elettriche, suoni duri e versi poetici. L'elenco dei ringraziamenti sulla copertina del disco dice in quale paesaggio gravita il nostro: si va dal country di Kevin Welch e Steve Earle al rock di Ashley Cleveland, dal ritmo strascicato del folk-rock dylaniano agli sferzanti riff degli Stones, dalla canzone d'autore di Tori Amos fino al grunge di Eddie Vedder e Pearl Jam.
Bill Miller bilancia rock e folk, blues e psichedelia con le voci del suo popolo ed estrae un album affascinante dove non è un genere a dominare ma il rock come mezzo espressivo di culture diverse e minoritarie.
Raven In The Snow è il punto di incontro tra le suggestioni indiane dell'artista e le chitarre dei visi pallidi. Per questo di fianco a brani evocativi che traducono stati d'animo e atmosfere mistiche convivono ballate di grande intensità emotiva come
BraveHeart, rock di stampo springsteeniano come
River Of Time ed episodi quasi grunge come
The Final Word, dove è la rabbia che esorcizza la sofferenza. È
In Every Corner Of The Forest, una specie di suite in tre parti che funge da concept del disco, la composizione più esposta verso le radici della musica etnica, a cui fa seguito la colorata
Red Bird, Yellow Sun luogo d'incontro tra un flauto andino, qualcosa di messicano ed una tromba jazz. La world music finisce praticamente qui perché nel resto del disco è l'energia del rock'n'roll a fare da viatico e a mostare le virtù di una band allenata all'elettricità.
La title track è una specie di
Sympathy Por The Devil costruita attorno al ritornello "
prendere quello che ho bisogno/mai più/nell'arte della sopravvivenza non ci sono né ricchi né poveri/il tempo passa, i regni vanno e vengono/ho già visto tutto/sono un corvo nella neve". Più che alla poesia di John Trudell
Raven In The Snow rimanda al film di
Sean Penn Indian Runner.
Nell'iniziale
River Of Time si incontrano l'armonica di Elliott Murphy e la chitarra di Springsteen, solida come una roccia è
Pile Of Stones. After The Storm sa di Neil Young con i Pearl Jam e la convulsa e grungy
The Final Word parla il linguaggio della rabbia e delle promesse tradite. Basterebbe ciò per motivare l'acquisto del disco ma in più c'è il country-blues di
Eagle Must Fly Free, This Kind Of Love con un hammond
A Whiter Shade Of Pale e la stupenda
Braveheart, fiera e bella come un capo Sioux.