JOHN MELLENCAMP (Human Wheels)
Discografia border=parole del Pelle

          

  Recensione del  30/01/2004
    

Due anni dopo la delusione, commercialmente parlando, di «Whenever we wanted», Johnny Mellencamp, ex Cougar, ex Little bastard, ritorna a farsi vivo con un nuovo lavoro. Ed anche in questo caso c'è un cambiamento radicale. Non è più il rocker grintoso di «American fool», né il roots-rocker, che aveva reinventato sé stesso, di «Lonesome jubilee» e «Big daddy», né il sanguigno musicista tout-court di «Whenever we wanted»: ancora una volta John Mellencamp si è rivestito a nuovo ed ha rialzato la testa.
John è uno che non si piega alle leggi di mercato: una volta che ha raggiunto il successo ha voluto cambiare direzione, e poi, nel corso degli anni, ha cambiato e cambiato ancora, riciclando il suo suono e la sua immagine. Ora è un rocker quarantenne, ma la sua pelle la vende a caro prezzo e non pensa assolutamente di prostituire la sua musica per arrivare in cima alle classifiche. «Whenever we wanted», sanguigno e poderoso, rimane un buon disco di rock, forse troppo unidirezionato, ma la colonna sonora di «Falling from grace» rivendica la grandezza del Mellencamp autore. E «Human wheels»? «Human wheels» è diverso, nuovo, vigoroso, sanguigno, stradaiolo, politico, sociale, rock, soul, funky: John reinventa sé stesso per l'ennesima volta e muta anche il suono del suo gruppo.
Niente chitarre taglienti, niente batteria granitica: ma qualcosa di diverso, un approccio al soul, alla musica nera, al gospel. È un disco sofferto, poco penetrabile, quasi difficile, in cui il nostro mostra ancora le unghie e la voglia di graffiare di sempre, ma con più raziocinio e meno illusioni. Non c'è più l'impeto giovanile, c'è la ragione, non c'è più quel rock facilmente masticabile, ci sono delle canzoni più complesse: «Human wheels» è un bel disco, anzi azzarderei un gran disco, che cresce ascolto dopo ascolto. Dieci canzoni, dieci storie di vita, storie dure, talvolta violente, talvolta amare: con la batteria di Kenny Aronoff e il polistrumentismo di Lisa Germano sempre in evidenza, ma c'è anche il resto del gruppo che gira attorno al leader con la solita compattezza, senza tradire la mancanza del compianto John Cascella.
«When Jesus left Birmingham» è un brano lento, tinto di gospel, in cui due voci si alternano nel racconto di una storia tragica. Lo spunto per la canzone John lo ha preso dopo avere viaggiato una notte in macchina, nel '92, in un quartiere di Den Hague, Olanda: «Ho visto dozzine di uomini d'affari ben vestiti che circolavano in mezzo ad un numero imprecisato di prostitute. Era una sorta di Sodoma e Gomorra: c'era qualcosa di sbagliato in quel modo di agire. Quando ogni persona normale dovrebbe dormire, quei tizi cominciavano a vivere». Il brano, intenso e stringato, è sostenuto dalle sole voci, avvolte da una strumentazione decisamente scarna. «Junior» segue il protagonista attraverso il mondo della televisione: altro brano smozzicato, in cui Mellencamp parla, più cantare. È un racconto amaro, quasi tetro, ancora ben sostenuto da una strumentazione semplice, ma diretta.
«Human wheels» la title track, è un piccolo capolavoro: avvolta da una melodia accattivante; molto ricca dal punto di vista musicale, è una di quelle composizioni ad ampio respiro che entrano subito nel cuore. John canta con voce «diversa», Aronoff torna a fare il mantice, Germano sfodera tutta la sua bravura: e la canzone avvolge e prende all'infinito. È uno di quei brani che dovrebbero durare almeno dieci minuti, per darci il tempo di assaporarne appieno il contenuto: ed in mezzo John inventa uno stacco, molto semplice ma decisamente azzeccato, che ci fa gustare ancora di più il brano. Superba!
«Beige to beige» ci riporta alla memoria il rootsy rock di «Lonesome Jubilee» e «Big Daddy», con la fisarmonica in evidenza e il classico tempo cadenzato di quei dischi: è una bella canzone, dal testo toccante, cantata con misura e ben costruita nel suo tessuto melodico. Il ritornello «Beige to beige» rimane impresso immediatamente. «Case 795 (The family)» è un altro tragico racconto di vita: Mellecamp cerca di dipingere la società che ci circonda con durezza, senza strafare, e la canzone, grintosa e ritmata, mantiene per tutta la sua durata un invidiabile equilibrio. «Suzanne and the jewels» è più comune: non c'è nulla di nuovo, solo del gran mestiere, un buon testo ed una musica ben strutturata. E, malgrado tutto, il brano è dannatamente gradevole.
«Sweet evening breeze» è un altro racconto dal profondo sud: solo voce e chitarra all'inizio, una melodia flebile, un'altra storia agra. Poi entra la band ed il suono si fa corposo, ma rimane la riflessione, rimane quell'amarezza di fondo, permeata dalla voglia di fare grande musica. «What if I came nothing» è il singolo apripista dell'album: è un brano diretto, senza fronzoli, abbastanza qualunque, che però dovrebbe creare un sicuro interesse attraverso la promozione radiofonica: è un bel veicolo per le chitarre della band dell'ex puma. «French shoes» ha un attacco rollingstoniano: sia nelle voci che nell'uso della batteria il rocker del midwest rammenta le gesta dei Glimmer Twins.
Niente di originale, intendiamoci, ma l'uso della doppia voce e il contorno molto elettrico sono sempre sintomo di buona vena e grande salute. C'è un feeling nero in questa canzone, come in «Birmingham» e «Case 795»: e Mellencamp dice di essersi ispirato a Sly and the Family Stone e li considera tutt'ora dei precorritori del suono black dei giorni nostri. «All roads to the river» è una ballata, scritta in collaborazione con Janis Ian, dove il nostro indomito rocker giostra con equilibrio chitarre e melodia, voce e sezione ritmica.