Quarto album, in più di otto anni di carriera, per
James McMurtry, texano tutto d'un pezzo, figlio del noto romanziere Larry McMurtry. James, personaggio schivo e taciturno, è uno dei migliori cantautori arrivati alla notorietà da un ventennio a questa parte. Dotato di una voce secca quanto il Texas in un periodo di siccità, McMurtry è anche uno scrittore di vaglia: le sue canzoni sono bozzetti d'autore, piccoli quadri che raccontano la vita di provincia, storie senza importanza di gente assolutamente comune. Eppure proprio in questo sta il fascino dell'autore, nella sua musicalità glabra, con gli strumenti che vengono evidenziati lentamente, proprio per dare più profondità alla voce.
Per i perdenti ed i sognatori le canzoni di James hanno la stessa valenza che quelle di Lou Reed hanno per i Newyorkesi: McMurtry parla spesso di heartland, wasteland ed altri territori aridi e sconfinati, in cui non si riesce a vedere dove finisce la terra e dove comincia il cielo. James caratterizza fortemente la propria musica, sia dal punto di vista testuale che da quello vocale e strumentale, tanto che, quando lo ascolti, lo riconosci immediatamente. Non vende molto, ma è cultizzato profondamente (ad Austin è una leggenda) e dispiace che la Sony lo abbia lasciato andare: buon prò le faccia, che si tenga pure il ciarpame che costella buona parte del suo attuale catalogo.
È possibile che i discografici continuino a non capire che la musica di qualità, anche se lentamente, ha una vendita costante e da pregio al catalogo: non tutto si può vendere in grandi quantità, né ci si può sempre attendere fatturati miliardari. Ci sono dischi che hanno una vita breve, altri che l'hanno lunga, magari vendendo poco ma con continuità. Questo è il caso di James che vende ancora il primo disco e che, con tranquillità, venderà questo album.
L'aumento spropositato di prodotti indipendenti che sta caratterizzando il mercato americano è solo una faccia della negligenza dei discografici (ma fuori dagli Usa è anche peggio). McMurtry, voce alla Lou Reed, atteggiamento distaccato, sillaba le sue ballate, lente e desertiche, fluide e spigolose al tempo stesso e, ancora una volta, compie un piccolo miracolo di equilibrio. Una voce profonda e personale, questa volta meglio sfruttata grazie ad una strumentazione ad ampio spettro ma sempre sul livello di guardia e per nulla invadente: l'uso degli strumenti in questo disco è come la guarnizione di una torta, dove la fruita di stagione serve solo ad abbellire una prodotto già di per sé stesso molto ben riuscito.
«
It had to happen» è un signor disco, uno di quei rari dischi che si ascoltano per lungo, lungo tempo, e che non stancano minimamente. Lo metto sullo stesso piano del tanto decantato esordio, a livello musicale gli è anche superiore, e compositivamente parlando non gli è certamente inferiore. Cinquantacinque minuti di grande musica, con alcune canzoni degne di entrare nel concorso «migliore dell'anno», che noi del Busca stilliamo ogni fine stagione.