Un anno fa
Will T. Massey, Michael McDermott, Vinnie James, tre debuttanti sul fronte americano, ridavano fiato all'agonizzante street-rock rinfrescando il lessico nudo e crudo dei santi delle cittą. Qualcuno rammentava il primo Graham Parker, qualcun'altro Elliott Murphy e John Mellencamp, per tutti valeva il paragone con Springsteen, modello olimpionico con cui intendere sbrigatamente una musica fatta di vecchio rock'n'roll e speranze da working class hero.
Dopo quell'ondata tanto promettente tanto isolata un nuovo rocker "born in the USA" porta altre storie che urlano senza paura e senza tregua il loro credo verso una musica ai margini del rhythm & blues e dei Rolling Stones.
Doc Lawrence gode per il suo disco debutto della produzione di Charles Plotkin, un nome che gli springsteeniani conoscono bene, e di una band che con tre chitarre, il piano, il sax, il basso e la batteria (Gary Mallaber, quello di Lucky Town) ha la configurazione giusta per bruciare il rock della strada maestra. Capello lungo, baffi e barba, Doc ha ottime potenzialitą ed idee sacrosante su come coniugare gesti rudi e miti della strada.
La sua voce morde con veemenza, ha spessore ed il piglio di chi si č ascoltato la discografģa completa del rock and roll e del blues. Grida blue-collar come Bob Seger, sguaita come Mick Jagger, si appassiona come John Hiatt e flette l'accento urbano come Garland Jeffreys. Rocca duro e tinge la voce di soul come l'australiano Jimmy Barnes, come tanti sconosciuti runners in cuoio e stivali.