SCOTT LAURENT (Better Off)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Dopo il lusinghiero album d'esordio Caposville, la Scott laurent Band fa di nuovo parlare di sé con Better off, secondo capitolo di un viaggio nelle periferie del rock'n'roll dove le grandi lezioni del passato s'incontrano con l'urgenza espressiva delle nuove band nate a seguito dell' insurgent country. In verità la Scott Laurent Band ha ben poco a che spartire col country-rock e con quel movimento se non nell'approccio informale e punk con cui vengono affrontati classici e maestri, piuttosto, la band di Minneapolis, città che è un po' il centro di una scena ben definita, insegue un'idea del rock'n'roll che scaturisce dalle gesta dei santi della ex strada maestra, da Springsteen soprattutto ma anche dai Replacements, dai Wilco e da più oscuri rockers del Midwest.
Ciò era quanto usciva da Caposville, un album ancora acerbo ma con un paio di pezzi veramente buoni, ed ancor di più fuoriesce da Better Off, disco meglio amalgamato rispetto al precedente, dove la scrittura del leader, il cantante e chitarrista Scott Laurent, trova una adeguata risposta nel sound soulin' & rockin' degli altri quattro, il pianista ed organista hammond Andrew Ault, il chitarrista Brian Alverson, il bassista Matt Hefferman ed il batterista James Morris. Il risultato è ampiamente soddisfacente e tra ballate dalla cadenza lenta, dove Scott Laurent deve rinforzarsi in termini di malizia espressiva, e rock veloci in cui si respira, amica, l'aria del coast to coast, l'impressione è quella di avere tra le mani una band che, nel variegato panorama del giovane e nemmeno troppo sotterraneo rock americano estraneo alle multinazionali, sta trovando una sua dimensione ed identità.
In altre paroie la Scott Laurent Band è di fatto un altro prodotto dell'incredibile fermento subentrato allo split-out degli Uncle Tupelo ma, assieme a G.B. Leighton, Blind Otis, Arthur Dodge, si distacca dagli stilemi country-rock della no depression generation e va verso qualcosa di più strettamente urbano, riflettendo una condizione, la propria, legata ad una realtà industriale come quella di Minneapolis. Better Off ne è la conferma.
Il disco si apre con un brano che ricorda da vicino Running on empty di Jackson Browne e poi entra nel vivo con l'atmosfera un po' rootsy ed un po' Byrds della title tack, bell'esempio, nello stesso tempo, di ariosità e sporcizia, la cui vitalità ritmica non sfigurerebbe in mano ai Gin Blossoms. Con Where this world let you down si passa alle ballate, non tutte riuscite ma esplicative dello stile complessivo della band. Where this world let you down è un po' risaputa, Find your way home è come il titolo, intimista e casalinga, col piano e le chitarre rapite dall'enfasi del racconto, Hard to show fa fatica a partire ma poi subentra voglia di riscatto e rabbia e conferma, pur nei tempi medi, l'essenza bar boogie della band.
La migliore è la conclusiva Brushes in E, una sorta di canto notturno, lento ed avvolgente, che si avvale di soluzioni minute ma efficaci. Una chitarra acustica, delle spazzole, un piano ed in primis la voce di Scott Laurent che sembra parlare in solitario alla luna. Per il rock dai modi bruschi c'è solo l'imbarazzo della scelta. Detto di Better off segnalo la triplice sequenza di Dust, Monday e Summer Road. La prima, polverosa come il titolo, ha tempi e controtempi, chitarre in evidenza, velocità ed un finale «saggiamente» convulso.
La seconda sembra una derivazione dello Springsteen di Lucky Town. Accordature aperte, eco chitarristico che fa molto epico, un ritmo ben assestato, è una rock-ballad ventosa che tira dall'Atlantico verso l'West. Summer Road è ancora ruvida, canta di promesse, di oscurità e di strade vanificate dal sole, potrebbe stare sul tributo One step up/Two steps back e nessuno avrebbe di che contestare. Per concludere Fine Little Smile ha un'armonica easy ed un'aria antica, Say It's forever è un country scherzoso che sembra sfuggito a Sweetheart of the rodeo dei Byrds.