WILLARD GRANT CONSPIRACY (There but for the Grace of God)
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  Recensione del  21/12/2004
    

L'esigenza spesso riduttiva e stereotipante di coniare nuove etichette per identificare gruppi che rivelano analoghe attitudini e sonorità, o per sottolineare quella che dovrebbe essere una nuova eclatante scoperta in ambito discografico, è da sempre una velleitaria prerogativa della critica musicale: dopo il grunge e l'alternative country degli anni '90, l'ultima sensazione proveniente d'oltreoceano sembra essere il movimento neo-folk, una scena improvvisamente esplosa con Devendra Banhart e Jolie Holland, che allinea sempre nuovi adepti.
Scaturiti dal calderone Americana alla metà degli anni '90, i Willard Grant Conspiracy hanno dato vita a quello che è stato etichettato "country-noir" o "gothic country", mantenendo un'identità ed un'integrità stilistica, che ha consentito loro di cavalcare attraverso l'alternative country per arrivare indenni al neo-folk, evidenziando affinità con entrambe i generi o forse con nessuno dei due.
Fin dal primo album, la poetica della band viene sviscerata attraverso plumbee ballate dall'incedere lento e grave, incentrate su vividi intrecci di strumenti a corda a fare da sfondo alla voce profonda e drammatica di Robert Fisher: una musica che assembla svariate influenze, raccolte tra tradizione e modernità, fonti ispirative, che come evidenziano le note del nuovo There but for the grace of God, contemplano tanto Willie Nelson quanto i Joy Division.
Costantemente avvolta da un velo d'ombra, la musica dei Willard Grant Conspiracy sembra recuperare oscure liriche appalachiane, con un suono elettro-acustico che evoca la più antica tradizione folk e bluegrass, anche se il canto rivela un'intensità narrativa affine a quella di un Nick Cave, di un Leonard Cohen o dell'ultimo ispiratissimo Johnny Cash, ed alcuni passaggi elettrici evidenziano malcelati pruriti alternativi.
Suggestive ed affascinanti, le ballate dei Conspiracy dipingono in modo profondo un mondo di interiorità ed emozioni, attraversato da effimere vibrazioni melodiche e da umori notturni e malinconici. Il nuovo There but for the grace of God ripercorre i nove anni di carriera ed i cinque lavori di studio pubblicati dalla band, rimasterizzando il suono e aggiungendovi all'incirca un terzo di materiale inedito, tracciando così un quadro sufficientemente completo del percorso finora intrapreso: cinque dei diciassette brani presentati sono inediti, mentre i pochi secondi di intervallo tra le canzoni sono spesso riempiti da brevi stralci di sessions strumentali.
La selezione comprende bucolici momenti acustici come Morning is the end of the day o la versione scarna ed essenziale di Bring the monster inside, ben diversa da quella tesa e "disturbata" contenuta nell'album Flying low, ballate dall'incedere epico e grandioso come la splendida Evening Mass, la trasognata The Work song o la ritmata Christmas in Nevada. Preziosi intarsi strumentali di chitarra acustica, violino e viola cesellano la mesta ed autunnale melodia di St. John Street, altrettanto quieta e delicata suona la versione inedita della bellissima Rainbirds, mentre vibranti distorsioni elettriche attraversano la tormentata Bring it down, in una efficace sequenza di atmosferiche escursioni in territorio folk e dinamiche proiezioni alternative.
Come tutti i best of o greatest hits, che dir si voglia, anche questa raccolta può risultare al contempo essenziale o superflua, specie se ci si trova di fronte ad una produzione discografica relativamente ridotta, e questo ha sicuramente influito sul giudizio finale, perché il materiale qui presentato è tutto di primissima qualità e le canzoni assolutamente splendide: va inoltre sottolineata la cura con cui i protagonisti lo hanno assemblato, cercando di rappresentare ogni disco pubblicato, scrivendo di proprio pugno note e commenti per ogni canzone e completandolo con una soddisfacente quantità di inediti.